NERE CHIAZZE DI ROSSO di Andrea Di Massimo

genere: FANTAPOLITICA

Di nuovo in Africa, come tante altre volte.

Non ho certo di che stupirmene, visto che rappresenta il terreno più fertile, per certe cose.

Il campo dove la zizzania cresce più forte, tenace e rigogliosa.

L’humus ideale.

Africa.

Il solo nome mi fa venir caldo.

Mi risuona nelle orecchie e nella testa, colorandomela di rosso e di nero. Come il sangue denso e grumoso, come la pelle lucida e calda.

Arrivo in albergo, e subito il tipico odore di foresta mi si avventa alle narici. Come se da queste parti tutto debba sapere di foresta, di foglie secche e marce, anche a chilometri di distanza dalla vera foresta più vicina.

Ma forse è solo un’illusione, se è vero che ogni eco dei sensi non è che un’illusione, che nasce nella mia mente come un miraggio madido di luce, oscillante sulla pelle del deserto.

Do il mio nome fittizio al portiere dell’albergo, un negro cui non so dare un’età, nero come penseresti che un uomo non potesse essere mai.

Controlla, una svogliatezza impassibile appiccicata alla faccia, che quel miraggio di nome compaia sul registro.

Non mi guarda in faccia, mi dice firmi qui e mi porge la chiave con la punta di due dita quasi che scotti.

La prendo, e nello stringerla mi scopro a sorprendermi che non scotti davvero.

Non dico niente, faccio solo un lieve cenno con la testa, ma è troppo pensare che risponda allo stesso modo.

Ignoro l’ascensore, e salgo le scale lentamente, appoggiando i piedi con la delicatezza d’un ladro che tema di svegliare gli abitanti della casa in cui s’è introdotto.

Arrivo al terzo piano, raggiungo la mia stanza ed entro.

Mi accoglie un ambiente essenziale, anonimo, ordinario, una stanza che sembra somigliarmi.

L’infamia e la lode non abitano qui.

Dall’unica finestra alla sinistra del letto piove la luce obliqua e rosata del sole al tramonto, bagnando le pareti immacolate che sembrano adesso trasudare d’una resina rosacea e impalpabile.

Poso la mia valigetta sul letto, tiro fuori dalla tasca della giacca il videotelefono e lo appoggio sul piccolo comodino di legno alla destra del letto.

Il mio contatto non dovrebbe tardare a farsi vivo.

Passo quindici minuti a fissare le nuvole gonfie e vaporose, cangianti di tutte le sfumature di rosa e sovrastate dalle striature azzurrognole del cielo al di sopra come dalle vene d’una qualche aerea creatura dal corpo traslucido. Poi, il silenzio nella mia testa è increspato solo dal trillo del videotelefono, che vi si diffonde in cerchî concentrici come nell’acqua piatta e immota d’uno stagno in cui sia lasciato cadere un sasso.

Lo prendo in mano, aspettando che quegli squilli aguzzi e penetranti come aghi acquisiscano congruenza con le mura di questa stanza, con la luce morente di fuori, con me stesso, che vengano assorbiti dal mondo in cui sono precipitati senza preavviso.

Quando mi sembra che non stridano più con ciò che è al mondo da così più tempo di essi, mi decido a rispondere.

Premo il tasto OK e subito Faccia d’Ebano riempie di sé il piccolo monitor del videotelefono.

Mi scruta con i suoi occhietti infossati e cattivi.

Va bene, lo ammetto, un piccolo brivido lo dà anche a me.

Salve, gli dico, visto che non sembra intenzionato a parlare per primo, sono arrivato da poco.

Inclina leggermente in avanti la testa lucida e rasata, in vago segno di assenso.

Rimane in quella posizione per qualche secondo, come a voler essere sicuro che mi sia accorto del movimento.

Poi d’un tratto la ritrae, quasi che una molla nel collo sia di colpo lasciata scattare.

«Problemi?» mi chiede, muovendo appena le labbra e lasciando uscire quella sua voce profonda ma chiara.

Nessuno, rispondo, stentando a adattarmi alla sua laconicità.

Sarò lì verso le dieci, mi annuncia.

Non faccio in tempo a trovare qualcosa da ribattere che l’immagine della sua grande testa d’ebano viene risucchiata dal buio del piccolo monitor. Appoggio di nuovo il videotelefono sul comodino; ragiono che al mio appuntamento mancano ancora due ore abbondanti, e che non ho niente da fare.

Mi distendo sul letto, regolo l’allarme dell’orologio perché mi avverta con venti minuti d’anticipo e chiudo gli occhî.

Non ho pensieri, ho un buon controllo del sonno.

A volte penso di avere quasi una sorta di interruttore del sonno, da poter pigiare a mio piacimento ogni volta che ne ho voglia.

Lo pigio, e tutto diventa buio.

*****

Quando l’allarme mi sveglia apro gli occhî, riuscendo a malapena a capire di averli aperti davvero.

La stanza è gonfia del buio della notte, dilagato dentro di essa come un denso liquido inodore.

Mi alzo, accendo il piccolo paralume sul comodino e mi accosto alla finestra, gettando uno sguardo che neanche scalfisce la notte dura come pietra.

Flebili luci in lontananza rischiarano appena i contorni della città vicina. Abbasso la serranda e percorro la stanza fino a raggiungere l’interruttore della luce.

Lo premo e una sciabolata di luce mi costringe a serrare le palpebre.

Vado in bagno e mi sciacquo il viso con un’acqua insopportabilmente calda. Quando torno nella stanza il videotelefono sta squillando.

Sto entrando nell’albergo, mi dice Faccia d’Ebano appena premo il pulsante OK, e anche stavolta noto appena il movimento delle sue labbra carnose. Bene, rispondo, e stavolta sono io a svanirgli davanti avvolto dall’oscurità. Dopo un minuto d’orologio sento tre battiti secchi alla porta.

Apro, e mi compare davanti più alto e grosso di quanto l’avessi immaginato.

Il suo corpo riempie quasi del tutto lo spazio della porta.

Mi scosto sulla destra, lo lascio entrare.

Egli muove due passi silenziosi, e subito richiude la porta dietro di sé.

Mi si staglia davanti, imponente come un nero monolito vivente.

Mi getta un’occhiata meticolosa, con la quale pare volermi frugare dentro, come cercando la natura della mia più intima essenza.

Non sono un novellino, eppure non riesco a parlare.

Non so trattenermi dallo schiarirmi nervosamente la voce.

Faccio un mezzo passo indietro.

A quel punto sembra perdere interesse in me, come chi abbia già esplorato a fondo la natura d’una cosa, l’abbia compresa, e deciso che non gli interessa. Muove i suoi passi verso la finestra con la serranda abbassata e lí si ferma, inarcando la schiena e piegando la testa, le mani poste agli angoli degli occhî a coprire il riflesso della luce sul vetro.

Scruta fra le fessure, in silenzio, perfettamente immobile.

Passano, così, diversi secondi, in cui riesco perfino a far caso per la prima volta al quasi impercettibile ronzio prodotto dalla tensione elettrica della lampadina.

“Che cazzo hai da guardare fuori dalla finestra, mi vuoi impressionare, forse?” penso, ma non lo dico mica.

Troppo grosso l’amico.

Così dico solo:

«Qualche problema là fuori?»

È il primo suono articolato che emetto da quando mi è entrato in stanza, la prima vocalizzazione intelligibile dopo il verso prodotto schiarendomi la gola.

Mi fermo ad ascoltarlo, e mi sembra che quel suono sia rimasto sospeso nell’aria.

Quelle parole rimangono a inseguire la loro eco nella mia testa come se avessi appena parlato con la voce di qualcun altro. Solo il movimento dell’uomo mi distoglie dal mio incantamento.

«No, nessun problema. Devi stare calmo.» mi dice, scandendo le parole come un ipnotizzatore che cerchi di vincere le resistenze del suo paziente.

“Pensavo di esserlo già.” mi dico, ma poi mi scopro a rendermi conto che non è vero, che ha ragione.

Si volta verso di me, guardandomi ora senza l’interesse morboso di prima. Raggiunge il piccolo tavolo addossato alla parete di fronte al letto, scostando una delle due sedie poste sotto di esso.

Vi si siede, producendo un forte scricchiolio come di legno che si spezzi.

«Siediti.» mi dice, spostando con un piede l’altra sedia che ha di fronte a sé. Obbedisco in silenzio, mentre si sistema tra le gambe la valigetta che si è portato dietro.

Quando mi siedo di fronte a lui mi sembra ancora più gigantesco.

«Allora?» m’azzardo a dire, e mi sento quasi un temerario.

Egli non fa una piega.

«Ho l’accordo della maggior parte dei membri del governo di questo paese» mi annuncia.

La sua voce produce una risonanza baritonale che si rifrange tra gli angoli di queste quattro mura anguste.

«L’accordo è stato trovato su una delle tante minoranze etniche presenti,» continua «quella che dà maggiori problemi e di cui tutti sarebbero contenti di potersi sbarazzare. O almeno di poter ridimensionare fino a renderla inoffensiva. Essa non può contare su alcuna rappresentanza di governo, fatta eccezione per qualche mezzosangue. Ma i mezzosangue non brillano per fedeltà» sogghigna, scoprendo per la prima volta il candore dei denti grandi e dritti.

«Non più un conflitto internazionale come s’era detto, allora?» domando.

«No, sebbene i motivi di attrito con nazioni vicine non manchino, l’ipotesi è stata considerata troppo compromettente, troppo pericolosa, e rigettata unanimemente. Ma non dovreste lamentarvene, voi» mi dice, e nell’incidere quel “voi” nel resto della frase come una pietra aguzza infilata a forza in un tronco, sembra avvolgerlo d’un disprezzo che non capisco.

Non da parte sua.

«Un conflitto interetnico e pseudotribale che si svolge all’interno dei confini d’uno stesso paese è qualcosa d’ancor più appetibile, o sbaglio?» mi chiede, piegando l’angolo destro della bocca in una smorfia particolarmente sgradevole.

«La vostra pay-tv ne avrebbe l’esclusiva mondiale, è un grosso affare» insiste. «Lo è, certo, anche più che se fosse stata una guerra internazionale.»

Ha ragione.

Anche stavolta.

«Ne convengo anch’io,» dico «ma mi assicuri che non ci siano pretese più alte, per questo?»

«No, nessuna da parte di quelli del governo. La vostra offerta li soddisfa in pieno. Sai, da queste parti non ci vuole poi molto,» ghigna «nessun’altra pretesa, no… eccetto una».

«Quale?» gli chiedo, sorprendendomi della luce ostile che immagino brillarmi negli occhî mentre lo fisso nei suoi.

«La mia» mi annuncia serafico.

Non fingo uno stupore che non provo.

«Mi sono esposto molto in questa faccenda, e quando il casino scoppierà dovrò sparire da qui per un bel po’,» confessa «forse per sempre, è ovvio che le mie necessità aumentino».

«Di quanto?» lo interrogo.

«Del doppio» mi risponde con un sorriso che gli allarga la faccia mostrandomi di nuovo la chiostra immacolata.

«Non sono autorizzato ad arrivare così in alto» gli dico, mentre penso che invece ci arrivi bene con quello che mi sono portato dietro.

«Ma esiste qualcuno che può autorizzarti, immagino» ribatte.

«Devo prima consultarmi con i miei superiori» confermo.

«Prego» mi dice Faccia d’Ebano, abbagliandomi con il biancore d’avorio dei suoi denti.

I suoi piccoli occhietti maligni sembrano compiangermi un po’.

Ostentando una noncuranza che mi appartiene solo in parte, afferro il videotelefono e compongo il numero della mia società.

La faccia del mio capo accende il piccolo monitor quadrato dopo appena uno squillo.

«Cosa c’è?» mi chiede subito «ci sono problemi?»

«Forse» gli dico. «Si tratta del nostro contatto, vuole di più».

«Quanto?» mi inquisisce, accentuando appena la durezza dell’espressione.

Scommetterei qualsiasi cosa che sta considerando l’intera cifra messa a mia disposizione per concludere l’affare, stimando a quanto possa mai ammontare la nuova pretesa del contatto, se la cifra possa o no bastare per un’ulteriore richiesta, del resto già messa in conto. Tutta questa frenesia, mi immagino, dietro quel volto impassibile, indifferente.

«Il doppio» lo informo.

«Accetta,» mi ordina «ci arrivi bene».

Ogni volta così. Una specie di inutile pantomima. È chiaro che accettiamo. Potrei chiudere qui ma preferisco recitare un altro po’.

Ci ho preso gusto.

Inoltre, scopro che la presenza di Faccia d’Ebano che seguita a tenermi gli occhietti incollati addosso ora mi diverte.

«Potrebbe esserci anche un altro problema» continuo. «L’accordo tra i membri del governo è stato raggiunto per scatenare un’offensiva contro la minoranza etnica giudicata più “problematica”. L’ipotesi di un conflitto internazionale è stata scartata».

«E ti sembra un problema?» mi fa il capo.

Credo che a lui non sia mai piaciuto recitare.

«Con un conflitto tribale avremo ancora più ascolti, più pubblicità, più profitti» mi dice quasi infervorato, sciorinando argomenti che conosco bene quanto lui.

«Quando abbiamo contattato il governo di quel paese per sondare la disponibilità a scatenare, dietro compenso una guerra di cui avessimo l’esclusiva mondiale, neanche osavamo sperare tanto. Un conflitto tribale, ottimo» dice e, a meno che non dipenda dal riflesso della lampadina sul monitor del videotelefono, direi che gli stanno brillando gli occhî.

«Sono i più feroci, e dove c’è ferocia c’è ascolto» sentenzia. Va benissimo così, hai altri di questi “problemi”?» mi chiede senza nascondere l’irritazione.

Il mio capo è uno stronzo.

Manca di ironia, si prende troppo sul serio.

«Nessun altro, se anche lei non ha altro da dirmi, vado a concludere l’affare.» «Concludi in fretta e leva le tende» ordina, per poi sparirmi davanti.

Spengo anch’io il videotelefono e quando mi giro verso Faccia d’Ebano è lì che ancora mi fissa con un ghigno ora un po’ beffardo.

Non lo trovo più così divertente, adesso.

«Tutto a posto,» dico «la tua condizione è stata accettata.

Egli annuisce emettendo un risolino cavernoso.

«Mi sarei stupito,» dice «mi sarei davvero stupito se non lo fosse stata.

Anch’io, vorrei dirgli, ma non mi va e resto zitto.

Prendo la valigetta, la apro.

Dalla tasca nella parte superiore tiro fuori la custodia in cui sono conservati i soldi preventivati per le richieste straordinarie quanto probabili.

Ne tiro fuori quanti bastano per arrivare alla cifra pattuita con Faccia d’Ebano, li metto insieme agli altri tenuti nello scomparto principale della valigetta.

Glieli porgo perché li conti.

“Buffo” penso “che in un tempo in cui tutto diventa volatile e immateriale io debba lavorare con tutto questo contante addosso”.

Ma per certe cose è meglio che il denaro non lasci tracce, e quello virtuale, a dispetto della propria immaterialità, ne lascia fin troppe.

Indulgo spesso a questo genere di riflessioni, non so bene perché.

Forse per colmare i tempi morti di questo genere d’affari.

Faccia d’Ebano mi porge il contratto d’esclusiva, su cui verrà apposta la data all’indomani dell’inizio delle ostilità.

Tutto perfettamente legale, nulla vieta di riprendere una guerra.

Nulla vieta che se ne conceda l’esclusiva a chi può permettersela.

Gli do una rapida scorsa, ormai mi basta poco.

Lo firmo, glielo rendo.

«Allora siamo a posto,» mi annuncia Faccia d’Ebano dopo aver finito di contare «ce n’è di che foraggiare tutti quanti, conclude in tono stranamente neutro».

Trovo un po’ di coraggio, e gli faccio la domanda che non si può non fare, per quanto inutile, a un uomo cui si stanno affidando tutti questi soldi.

«Non ti verranno strane idee, vero?» gli chiedo.

Non pare risentirsene mentre mi pianta negli occhi il suo sguardo sottile.

«Non ti devi preoccupare,» mi risponde «se me le facessi venire sarei solo un morto che cammina. Non durerei a lungo. Qui dentro ce n’è per tutti, dice» la bocca di nuovo allargata in un ghigno compiaciuto.

Faccia d’Ebano mi sorride un’ultima volta, richiude la valigetta e fa scattare il suo corpo massiccio verso la porta.

Un ultimo lampo dei suoi occhi nei miei, poi l’attutito rumore della porta che si chiude me lo copre per sempre.

Non mi mancherà.

Mi sdraio un po’ sul letto, e comincio a pensare.

Immagino la guerra che a breve verrà, il frastuono degli spari, i morti, il sangue… se qualcuno potesse vedermi, sapendo cosa significherà quello che ho appena fatto, di certo penserebbe che i rimorsi hanno cominciato a rodermi la scorza del cuore.

Penso così e mi viene da ridere.

Niente da fare, non ci penso neanche.

L’ho passata, quella fase, l’ho passata da un pezzo.

È qualcosa che ti succede quando sei solo un principiante alle prime armi.

Ci passano tutti.

Quello che veramente mi fa incazzare è che la gente neanche ci crede, a quello che vede, oggi.

Si credono furbi, e pensano che sia tutto un raggiro dei network televisivi.

“Roba da matti, uno si danna l’anima, e forse potrebbe non essere solo un modo di dire, e chi lo sa, “penso, e immagino che il sogghigno che mi si spalanca in bocca stupendo anche me quasi mi faccia somigliare a Faccia d’Ebano, “e comunque, dicevo, uno si danna l’anima per fare le cose per bene, per preparare tutto alla perfezione e rendere ogni cosa perfettamente reale, e questi stronzi credono che sia tutto un trucco… roba da matti, davvero roba da matti…”

*****

Uomini corrono al limitar d’una foresta.

Sono armati, indossano tute mimetiche grigio militare.

In prossimità d’un villaggio che s’intravede tra la macchia ancora fitta, i loro movimenti si fanno circospetti.

S’acquattano tra i cespugli.

Confabulano in una lingua che chi sta ascoltando non può capire.

Non è così importante.

Si fanno cenni bruschi, svelti, silenziosi.

Definitivi.

È da poco annottato d’una notte illune e le immagini sono riprese con telecamere all’infrarosso ad alta definizione.

Improvvisi scattano, i lunghi fucili automatici tenuti dritti in resta come lance d’un tempo neanche così remoto.

Il silenzio non serve più.

Urla acuminate come pugnali vi si conficcano dentro lacerandolo.

Il crepitio degli spari che segue punteggia l’oscurità della notte calda e afosa con le scie di mille schegge luminose.

«È cominciata!» grida l’uomo, rivolgendosi alla giovane moglie che siede sul divano accanto a lui.

Ella gli stringe la mano, nervosa, all’apparenza incerta se condividere la sua eccitazione oppure azzardarsi a insinuare qualche dubbio in quel muro granitico che sembra essere l’entusiasmo di suo marito.

«Sai cosa ho sentito dire, esordisce con voce un po’ incrinata e senza staccare gli occhi dalla scritta lampeggiante in fondo allo schermo che dice ‘Attacco in corso!’, a proposito delle guerre riprese dalle pay-tv

«Che cosa?» chiede il marito di rimando, ugualmente rapito dallo spettacolo degli spari, delle esplosioni, e del sangue che ora scorre abbondante, sangue di uomini, donne, bambini, sorpresi nel sonno da quell’attacco d’un’efficienza selvaggia e implacabile.

«Che non c’è niente di finto, in quello che vediamo, che è tutto vero… pare che ci siano persone che si occupano proprio di farle scoppiare, le guerre, emissari delle stesse pay-tv che poi ricevono l’esclusiva delle riprese da parte dei governi corrotti del Terzo Mondo.»

L’uomo ha un fremito, non sufficiente tuttavia a distoglierlo dal video, il fremito di una risata a stento trattenuta.

«Si può sapere dove hai sentito dire simili sciocchezze?» le chiede «Andiamo! pay-tv guerrafondaie! Questa poi… al massimo riprenderanno guerre che scoppiano spontaneamente… ma io non credo neanche questo…»

«Ma non sembra anche a te tutto vero?» insiste lei, incapace di concepire come possa quel sangue così denso e rossastro non essere vero, come possano quei corpi che vanno in pezzi sotto l’urto incandescente dei proiettili dirompenti essere nient’altro che accurati effetti di scena.

«Non è così anche nei film?» le domanda allora un po’ spazientito, come fai a distinguere questo da un film di cui non dubiteresti mai che non fosse finto?»

Alla donna quella del marito pare una logica inattaccabile e tace, infine, rassegnata a non far domande che possano turbare lo spettacolo.

«Su, ragiona!» insiste ancora l’uomo «Lo sai anche tu che tutto quello che ci fanno vedere è solo una messinscena. Vorrebbero farci credere che è tutto vero ma non dobbiamo essere così ingenui… e poi» continua, non ancora pago del silenzio della moglie «come puoi pensare che esista gente del genere? Non ci credo, l’uomo non è così cattivo, non può essere tanto cattivo…»

NERE CHIAZZE DI ROSSO di Andrea Di Massimo

genere: FANTAPOLITICA

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