ORARIO CONTINUATO di Fabio Forlivesi

Si era preso una cotta per Hope praticamente dalla prima volta che l’aveva vista, per questo quando lei gli aveva chiesto di coprirle il turno Miles aveva acconsentito, quasi precipitosamente, così come le persone un po’ patetiche fanno di solito.

A niente servono poi frasi del tipo: “Sì, insomma, non è un problema, ma solo per questa volta…”, o anche “Se proprio ti serve il sabato libero…”, ormai la frittata è fatta.

Si trattava di quel turno di otto ore che ti frega il sabato sera, dal tardo pomeriggio fino a domenica mattina. Evitato come la peste.

Non che Miles avesse di meglio da fare.

Avrebbe trascorso la serata guardando qualche vecchio film horror in camera sua, alla meglio una birra con Tyrone sul cofano della sua Buick Skylark in odore di sfasciacarrozze, a parlare di sogni destinati a infrangersi e cotte per ragazze fuori dalla loro portata.

Con Hope non aveva speranze, lo sapeva bene, ma quando mai la mancanza di speranza ferma il battere di un cuore innamorato?

Da quasi sei mesi lavorava part-time nella stazione di servizio alla periferia di Dale Grove, sulla strada per El Paso, appena due pompe di benzina e un mart con quattro corsie di cibarie e porcherie varie, riviste, cazzatine per turisti e un frigo per le bibite sul fondo con due ante tutte per la birra; e il turno di notte gli era capitato spesso. Hope era lì da più di un anno, tempo limite oltre il quale il pensiero di mollare quello schifo per un vero lavoro, o tornare a darci sotto con gli studi, comincia a sgretolarsi sotto i colpi della realtà.

Non che fosse uno schianto, Hope, con quei suoi capelli per metà rosa tirati in codini assurdi e il trucco un po’ punk, ma era un tipetto che non passava certo inosservato; ed era gentile, quel tipo di gentilezza che di solito serve a ottenere favori.

Miles aveva diciassette anni e stava mettendo da parte qualche soldo per contribuire a pagarsi gli studi, Hope di anni ne aveva ventuno, non aveva grandi progetti per il futuro e frequentava solo ragazzi più grandi, di quelli con la moto, o con auto che scaricano parecchi cavalli sull’asfalto, non certo la bici o la station wagon di mamma… No, nessuna speranza.

Ad ogni modo Miles in quel momento non era seccato per le sue pene d’amore o per il turno peggiore della settimana o per i soldi che sarebbero serviti alla rata di un college che avrebbe potuto tirarlo fuori da quel buco sperduto nel nulla… la cosa che lo preoccupava al momento era la canna della pistola puntata dritta contro le sue palle.

Becky Simmons sgattaiolò fuori dalla finestra della sua cameretta che era ancora buio.

Probabilmente Owen non si sarebbe accorto di niente nemmeno se fosse passata dalla porta suonando una grancassa, dato che aveva trascorso la sera con la seniorita tequila, il suo secondo più grande amore, ma era meglio non rischiare dato che lei in tasca aveva le chiavi della Ford Mustang del 72, il suo primo più grande amore.

La madre di Becky forse non rientrava nemmeno nella top five dato che al terzo posto c’era suonarle a Becky dopo che Owen aveva alzato il un po’ il gomito. Sua madre gli aveva permesso di installarsi a casa loro all’inizio dell’anno col pretesto che a Becky servisse una figura paterna, ma era solo una scusa: in realtà voleva qualcuno che la aiutasse a pagare i conti e le scaldasse il letto. Qualche minaccia e qualche ceffone occasionale facevano meno paura dell’alternativa.

Becky aprì la portiera della Mach 1 gialla e nera, buttò il suo zaino sul sedile del passeggero e avviò il motore girando piano la chiave; e stringendo i denti. Il rombo del Cleveland V8 riecheggiò come un ruggito nella notte, ma nessuno uscì sul vialetto con una mazza da baseball in mano.

Poco dopo era in strada, senza una meta precisa, solo andarsene di lì.

Magari nel giro di un’oretta Owen, uscendo in giardino in maglietta e boxer e una lattina di birra in mano, si sarebbe reso conto che la sua adorata Mustang davanti casa non c’era più. Becky sorrise all’idea che il suo patrigno avrebbe avuto un dopo sbornia coi fiocchi quella mattina.

‘Aperto – 24h’ era la scritta che si leggeva sul cartello appeso all’interno della porta a vetri. Quando il sergente Delrey la scostò, un campanellino fece sentire il suo ‘din din’.

Delrey era in divisa, aveva il revolver d’ordinanza appeso al cinturone – che gli stringeva un bel po’ sulla pancia prominente – aveva un paio di menti di troppo e aveva parcheggiato la sua auto di pattuglia quasi a ridosso dell’ingresso del mart. E pure male. Quella vecchia storia per cui si apostrofano i poliziotti con l’epiteto di ‘porci’ al sergente Delrey calzava come un guanto. ‘Pigasus’ alla riscossa, gli mancavano solo le alette.

Si avvicinò al bancone con fare circospetto guardando tra i reparti, una mano ad accarezzare il revolver come uno sceriffo in un saloon malfamato. Fece un cenno al commesso, diede una scorsa alle cibarie precotte poi infilò un burrito surgelato nel microonde su un lato del bancone, accanto a un grill per gli hot dog e alla macchina del caffè.

Nel frattempo, si preparò anche un bicchierone di soda alla ciliegia dal distributore automatico.

Miles sapeva che Delrey pagava col distintivo.

Erano giunti a una sorta di accordo lui e il titolare, Pops: il sergente faceva il giro quasi ogni sera e quello che si prendeva veniva scalato dalla paga del commesso di turno; se il commesso di turno aveva qualcosa da ridire in proposito poteva sempre chiedere a Delrey di pagare, chiederglielo mentre lui accarezzava il suo revolver, guardava torvo in giro col suo cipiglio mezzo incazzato e sputava per terra.

Per cinque e settanta di trattenute in busta paga non valeva la pena di farsi un nemico nella legge.

Naturalmente non era questo che preoccupava Miles al momento.

“Sembra che il locale sia vuoto”, disse Delrey succhiando rumorosamente un po’ della sua soda alla ciliegia.

“Così sembra”, rispose Miles.

“E queste?” Il sergente picchiò un dito sul bancone. C’erano due bottiglie di birra, due grosse barrette al cioccolato, un pacchetto di gomme e una bottiglietta d’acqua.

“Sto risistemando”, disse Miles, una gocciolina di sudore che gli colava dalla fronte.

“Ah, è così…” Delrey parve non notare lo sguardo spiritato dell’altro, e nemmeno la sua fronte imperlata di sudore nonostante l’aria condizionata a palla. “Tu ci vieni in bici al lavoro, se non ricordo male… Giusto, Miles?”

“Sì, è legata sul retro, signore.”

“E allora qui sorge una bella domanda”, disse Delrey, un pollice alle spalle a indicare l’ampia vetrata che dava sullo spiazzo antistante il mart.

“Così sembra…”

“Se il locale è vuoto, come dici tu, sai dirmi di chi sono le due auto parcheggiate là fuori?”

Troy sanguinava come un maiale sgozzato.

Erano a quasi un miglio di distanza dall’Interstatale 25, attorno c’erano solo campi a perdita d’occhio e ancora non si sentiva il suono delle sirene.

Troy era stato beccato allo stomaco e Voss sapeva che non ce l’avrebbe fatta.

Se lo era trascinato fin lì ma era il momento di guardare in faccia alla realtà: forse quella pallottola se l’era presa al posto suo e forse gli doveva qualcosa, ma era anche vero che di proiettili ne erano volati da tutte le parti e lui se l’era trascinato dietro per quasi un miglio. Voss cominciava a considerare che erano pari.

Quando sentì che l’altro lo posava a terra, Troy comprese la situazione. “Non puoi mollarmi qui, amico.”

“Mi spiace, ma non c’è altra scelta.”

“No, posso farcela…”

“Ti servirebbe un ospedale, tipo subito, e siamo in mezzo al niente.” Voss fece pure il gesto di guardarsi attorno. C’era solo una specie di fattoria a qualche centinaio di metri verso l’interno.

“Non voglio morire…”

“Quasi nessuno lo vuole.”

“Sei un bastardo! Se non mi muovevo c’eri tu qui al posto mio!”

“Forse che sì, forse che no… è successo un gran casino laggiù, non te ne fossi accorto.”

“E tu ti ripulisci la coscienza così, eh?”

“C’è chi è fortunato e chi gli dice male, Troy. Ecco, è tutto qua il segreto. Se non sei disposto a metterlo in conto, tipo darti al crimine non è una buona idea. Tipo è meglio impiegato in una ditta di giocattoli.”

“Non lasciarmi qui, ti prego non farlo…”

Ora a Voss sembrò di sentirle alcune sirene in lontananza. “Se non mi hai salvato il culo non ti devo niente; se lo hai fatto, be’, diamo un senso al tuo gesto, no?”

Troy sputò un po’ di sangue dalla bocca. “Sei un bastardo…”

Voss lo mollò lì.

“Ho fatto quello che ho potuto, amico, nessun rancore.”

Scostò la mano che tentava di artigliarlo a una caviglia con un calcio e nascose la pistola che aveva sottratto alla guardia dentro alla cerniera della tuta arancione.

Sarebbe stato il caso di scoprire se in quella specie di fattoria c’erano dei vestiti della sua misura. E magari anche un mezzo di trasporto.

Tetch trovò il finestrotto sul retro aperto, proprio come gli era stato detto.

Che fosse così stretto invece era una sorpresa.

Per raggiungerlo dovette spostare una delle cassette ammucchiate vicino ai bidoni, e poi stringere un po’ la pancia per scivolarci dentro. Dava su un corridoio che fungeva da magazzino di fortuna; a sinistra c’era la porta che conduceva al bagno, alla dispensa e alla zona con gli armadietti del personale e il ripostiglio delle scope, a destra l’ufficio di Pops, se ricordava bene la mappa tracciata a matita sul foglietto che teneva nella tasca posteriore dei jeans.

E, cosa più importante, non ci sarebbe stato nessuno. Il commesso era un coglione che non si spostava mai dal banco, le telecamere erano puntate tutte sul davanti dov’erano le due pompe, e sulle corsie interne; e in ogni caso erano solo in diretta, non registravano su disco. E Popsy-Bello il sabato sera lo trascorreva con qualche zoccola in un motel appena fuori Dale Grove… Via libera, quindi. “Praticamente facilissimo”, gli era stato detto.

Tetch capì che forse avrebbe fatto meglio a far scivolare dentro prima i piedi, quando si trovò a testa in giù diretto verso una cassa di cibi in scatola e una di bottigliette d’acqua da mezzo litro.

Mise le mani avanti mentre coi piedi si ancorava al bordo della finestrella e fece una mezza capriola finendo col culo sul pavimento.

Sentì la botta fin nelle ossa ma almeno non fece rumore. Comunque, rimase appostato per quasi un minuto prima di decidersi a muovere un passo.

C’era giusto una tendina che separava il fondo del corridoio dal resto degli ambienti. Stava per scostarla quando sentì delle voci e si bloccò all’istante.

Un attimo dopo un tipetto basso, mani nella felpa, cappuccio calato sul volto e jeans strappati, entrò dalla porta opposta che dava sul mart e si diresse verso il bagno.

“Ma che cazzo…” sospirò Tetch. Mise appena fuori la testa e quando vide che la via era libera, sul serio stavolta, prese dall’altra parte verso l’ufficio di Pops.

Sempre sbirciando circospetto aprì piano la porta dell’ufficio chiudendosela poi alle spalle. La cassaforte era dietro il quadro che ritraeva un cowboy intento a prendere al lazo un montone. Tetch si fregò nella tasca alla ricerca del bigliettino: sull’altro lato della mappa stilizzata c’era segnata la combinazione. “Impossibile che qualcosa vada storto, Tetch”, gli era stato detto.

Aggirò quella sottospecie di portaerei della scrivania di Pops ingombra di cartacce, confezioni vuote di hamburger e di soprammobili da poco, e coi quattro monitor collegati alle telecamere in funzione.

Una telecamera puntava sul bancone: c’era quel tipo, Miles, da solo, fermo impalato come se l’immagine si fosse bloccata. Proprio un coglione.

Tetch spostò la larga poltrona in pelle nera un po’ logora che doveva sopportate il culone di Pops per sei giorni la settimana, e si mise di fronte al quadro sulla parete lì dietro. Nessun sistema di allarme.

“Praticamente una boiata, Tetch-Tesoro, dentro e fuori senza che nessuno se ne accorga… cioè come me la notte scorsa.”

A quel punto Tetch si era un po’ risentito, ma qui si trattava anche di affari e non era il caso di stare a menarla troppo sul personale, cioè non prima di avere i bigliettoni tra le mani.

Tolse il quadro. Una semplice cassaforte con serratura singola a ghiera rotante e una maniglia.

La combinazione era scritta a matita: quattro cifre, ciascuna con su una freccia.

“Così non mandi tutto a puttane, neanche se ti c’impegni…”

Tetch pensò che, quando avesse avuto i bigliettoni tra le mani, sarebbe stato il caso di dare una rettificata a quel rapporto.

Ruotò a destra e a sinistra stando attento ad azzeccare ogni cifra. Alla fine, sentì il tanto agognato clic.

Comunque, sul fatto che niente sarebbe andato storto, lei aveva ragione. Stava per mettere mano alla maniglia quando un’immagine su uno dei monitor collegato alle telecamere esterne gli fece pentire di averlo appena pensato. Gli fece anche stringere il culo.

Un’auto della polizia si stava, giusto in quel momento, arrestando davanti all’ingresso della stazione di servizio di Dale Grove.

“Ma che cazzo….”, sospirò nuovamente Tetch.

Aveva girato senza meta per più di tre ore, scorrazzando su e giù per le strade del New Messico, tirando l’8 cilindri a dovere sulle freeways e abbassando i giri nei centri urbani, dove una ragazzina di sedici anni a bordo di un’auto di quel genere avrebbe dato un po’ troppo nell’occhio, specie se la faceva rombare.

Ora stava tornando verso casa perché c’era una cosa che doveva fare, che aveva rimandato per tutta la mattina.

Era sulla Route 85 quando notò il rallentamento del traffico sulla strada opposta.

Doveva esserci stato un incidente… E pure bello grosso a giudicare dal dispiegamento di forze.

Invece si trattava solo di un furgone grigio che si era ribaltato su un lato della carreggiata finendo per metà in un fosso.

Eppure, c’erano tre ambulanze e diverse auto della polizia, e a Becky sembrò anche di scorgere una squadra coi cani nei campi oltre la I-25. Pensò che ne avrebbero parlato al notiziario locale quel pomeriggio, inutile darsi pena.

Nel giro di un’ora era alla periferia di Dale Grove.

Quasi le dieci stando all’orario sulla tabella digitale della farmacia comunale, e la temperatura esterna già sfiorava i 35 gradi.

Becky voltò sulla Parsons, diretta nell’East Side del piccolo centro urbano, un buco che a stento toccava le cinquemila anime, a sud di San Antonio che di anime ne faceva la metà. E per poco non fece un incidente pure lei quando uno stronzo con la moto la superò stringendola a una curva.

Becky pigiò sul freno e sul clacson, evitandolo per un soffio, e si vide fare pure il dito medio mentre quello sterzava sgassando su per Ribera Drive.

“Gran pezzo di merda!”, gli urlò dietro lei, anche se certo non poteva sentirla.

Poco dopo, di umore nero, accostava davanti alle porte in ferro battuto del cimitero cittadino.

La tomba del padre Becky era una semplice lastra in marmo appena rialzata da terra, con le date e la scritta ‘amato padre e marito’.

Se fosse stato ancora vivo avrebbe compiuto quarantadue anni proprio quel giorno, e Becky aveva solo undici anni quando il brutto male se lo era portato via.

Sua madre aveva smesso di osservare quel genere di ricorrenze praticamente da subito, tanto che l’epigrafe suonava ipocrita almeno per una buona metà, ma Becky sapeva che lo aveva amato molto in vita, era solo che lei aveva un brutto rapporto con la morte. E in più – le aveva confidato una volta – si sentiva in qualche modo defraudata, nella felicità, dalla sua assenza; nel pensiero che per quanto le cose potessero essere difficili le avrebbero in ogni caso affrontate insieme.

In giro non c’era quasi nessuno. Becky tirò fuori dal suo zaino un tulipano giallo avvolto nella stagnola e una lattina di birra. Inginocchiandosi a terra all’indiana pose il tulipano sulla lapide e stappò la lattina. “Buon compleanno papà”, disse.

Quando Miles rispose al telefono e vide che era Hope per poco non cadde dal letto.

Era nella sua camera, le cuffie in testa ad ascoltarsi la playlist dei Foo Fighyers sul suo lettore digitale; fuori dalla finestra il sole d’agosto era un mostro di fuoco che guadagnava sempre più vigore col passare dei minuti, facendo diventare il condizionatore uno strumento degno di venerazione e la possibilità di un tuffo nel Rio Grande un sogno a occhi aperti.

Per il contatto di Hope aveva usato una delle foto ritagliate dal suo profilo Facebook, quella con lei che sorrideva, un po’ smorfiosa, un braccio a cingersi il petto e dietro l’immagine di un tramonto, che era probabilmente un fotomontaggio.

Strisciò il cursore verde sullo schermo del suo smartphone quasi con un fremito nella mano.

“Ciao Becky, sono Miles.”

“Sì, immaginavo che probabilmente saresti stato tu a rispondere al tuo telefono.”

E vai così Miles!… Imbecille che non sei altro. Bella partenza…

“Mi stavo chiedendo se potessi farmi un favore”, disse lei.

“Sicuro, ehm di che favore si tratta?”

“Mi chiedevo se non potessi coprire il mio turno di stasera.”

“Ma certo, non c’è problema!”

“Oh, grazie Miles, che gentile…”

Non così arrendevole, amico, andiamo… “Certo se a te serve il sabato libero…”

“Sei tanto caro, lo sapevo che avrei potuto contare su di te.”

“Ehm, ma solo per questa vol.…”

“Mi raccomando Miles, eh! Lo avverti tu Pops?”

“Sì, ci penso io.”

“Chiamalo verso mezzogiorno che lo trovi in ufficio, okay? Poi mandami subito un messaggio di conferma. Sei un tesoro, Miles. Una sera di queste ci beviamo una cosa insieme, se ti va.”

Oh, certo che mi va! Diavolo se mi va! “Sì, d’accordo…”, stava dicendo Miles, senza rendersi conto che Hope aveva già attaccato.

Il sergente Delrey stava facendo il suo giro di pattuglia quando la radio gracchiò una comunicazione in arrivo.

Era Brenda la novellina, di turno al centralino nella loro stazione di polizia di Dale Grove. Delrey tolse il microfono dal supporto a forcella del cruscotto e azionò il tasto di chiamata. “Ehi B., qui Delrey, parla pure.”

“Brutte notizie, sergente. Abbiamo ricevuto un avviso dall’ufficio dello sceriffo: sembra che ci sia stato un problema sulla I-25, un furgone si è ribaltato.”

“Un incidente? E perché se ne occupa l’ufficio dello sceriffo?”

“Non proprio un incidente. Il furgone era un trasporto prigionieri, diretto su ad Albuquerque. Sembra che una delle guardie sia riuscita a dare l’allarme prima che uscissero di strada. È stato un tentativo di evasione.”

“Cristo santo… Cosa sappiamo?”

“Non molto. Sul posto stanno andando pattuglie e ambulanze. Sta arrivando anche la polizia di stato. Vogliono che la notizia non sia diramata, né che venga allertata la cittadinanza. Se qualcuno fa domande dicono di farlo passare per un incidente e basta. Sa che vuol dire questo, sergente?”

“Sì, che si sta per scatenare una caccia all’uomo.”

In effetti era proprio una fattoria, quella che aveva scorto in lontananza. Voss aveva forzato la porta posteriore, la pistola pronta in mano. Nessuno in vista.

Gli servivano degli abiti: quella tuta arancione da carcerato dava un po’ troppo nell’occhio. Se voleva avere una qualche speranza di cavarsela doveva raggiungere El Paso, fuori dal confine dello stato, verso il Texas, lo stato più fottutamente armato di tutta l’America.

A El Paso conosceva un tipo che poteva fargli passare il confine col Messico. Ma non era un passaggio gratis.

In casa sembrava non esserci nessuno, piccolo colpo di fortuna.

Come aveva detto a Troy, che adesso probabilmente stava sputando gli ultimi residui della sua anima nell’erba, la fortuna… è tutto qui il segreto.

E Voss era uno fortunato.

Trovò degli avanzi in frigo e degli abiti che gli calzavano abbastanza bene, anche se dei pantaloni grigio topo con le coste e una camicia a tinte scozzesi non rispecchiavano proprio i suoi gusti.

Trovò anche un rotolo di banconote nel barattolo dei biscotti sul fondo della credenza, appena sei bigliettoni, ma che potevano far comodo.

E per ultimo trovò delle chiavi appese a un chiodo accanto alla porta d’ingresso.

Pensò quasi che dovesse lasciargli due righe di ringraziamento a quella famigliola gentile. Se nel frigo ci fosse stata una birra e se le chiavi non fossero state di un rottame di merda di Ford Bronco vecchio di cinquant’anni magari lo avrebbe anche fatto.

Becky accostò di fianco a un’alta siepe in fondo al viale, sufficientemente distante da casa sua per non essere scorta ma abbastanza vicino da vedere il cortile posteriore.

E non c’era movimento.

Dal suo zaino estrasse un sacchettino con dentro il suo cellulare smontato.

Aveva trascorso il pomeriggio nell’area ristoro della riserva naturale ‘Bosco degli Apachi’ a vedere le famigliole che si accampavano per il pranzo in una pausa dalle osservazioni della fauna selvatica, a vedere padri che passavano il binocolo ai figli sulle loro spalle indicando magari un ani beccosolcato appostato tra i rami, o un rallo collorosso in volo, e a vedere madri che stendevano coperte sull’erba aprendo i cestini del pranzo mentre i figli correvano loro incontro sorridenti.

Lei era sola su una panchina, mangiando un tramezzino portato da casa e qualche biscotto alla crema, innaffiando il tutto con la seconda lattina di birra fregata a Owen.

Alla fine, se n’era andata con una fitta di nostalgia e il bisogno di tornare a un luogo di appartenenza.

Inserì la scheda e la batteria nel cellulare, premura inutile probabilmente, non pensava che qualcuno avesse allertato l’FBI per rintracciarla triangolando la sua posizione, ma un bello spavento sua madre doveva esserselo preso.

Chissà quante chiamate e messaggi erano arrivati…

Attese che il cellulare si avviasse.

Poi attese ancora un po’.

Poi attese ancora. Cinque minuti. Dieci.

Non c’erano né messaggi né chiamate. Nessuna, per tutto il giorno.

Si chiese se si fossero accorti che se n’era andata. Owen di certo aveva dato di matto per la macchina, e forse anche per le due lattine mancanti alla sua scorta, ma per il resto nisba.

Si chiese se sua madre fosse ubriaca, se lo fosse stata per gran parte di quella giornata. Alla fine, smise di farsi domande e riavviò il motore.

Il bisogno di tornare a un luogo di appartenenza non c’era più, o forse c’era ancora ma il luogo di appartenenza non era quello, o più probabilmente era quello, dato che non ne aveva altri, ma era coperto da uno strato di rabbia e sconforto tali da non renderlo più percepibile.

Una cosa invece era chiara: a casa non ci sarebbe tornata stanotte. L’indomani avrebbe deciso il da farsi. Ma oggi no.

Quella giornata in qualche modo era ancora sua.

Non le restava altro.

Delle tre ambulanze sopraggiunte solo una era rimasta.

Non che ce ne fosse bisogno: di superstiti non ce n’erano. Tutti cadaveri al sessantaquattresimo miglio dell’Interstatale 25.

Il tenente Bower della polizia di stato si aggirava per la scena cintata dalle bandelle di nastro giallo, e da coni e torce di segnalazione che chiudevano un paio di carreggiate costringendo il traffico a rallentare, formando un piccolo ingorgo in direzione nord.

Bower era sull’uno e ottanta, aveva folti capelli castani e indossava un completo elegante color malva che con quel caldo faceva sudare solo a guardarlo.

Alcuni agenti in maniche di camicia lo fissavano facendosi aria coi loro cappelli e chiedendosi come facesse a non tramazzare a terra.

Si dissero che forse era troppo concentrato per sentire il caldo: misurava la scena a passi lenti fissando i segni di frenata, il furgone ribaltato, il posizionamento dei corpi, le tracce di sangue, come se ogni cosa gli parlasse, suggerendogli la dinamica dei fatti.

In effetti era più o meno così.

Era rimasto per quasi dieci minuti nel retro del furgone steso su un fianco – occorreva scalarlo e raggiungere il portellone laterale, ora rivolto al cielo, per entrarci… cosa che Bowen aveva fatto aggrappandosi alle ruote – prima di uscire e comunicare le sue impressioni al resto della truppa.

“Penso che i fatti si siano svolti più o meno così: uno dei quattro detenuti deve essersi liberato dalle manette, credo quello sul lato posteriore destro perché le manette hanno tracce di scheggiatura (doveva avere un pezzetto di metallo nascosto addosso), ha atteso il momento giusto e ha aggredito la guardia di scorta del vano posteriore. Immagino sia partito un colpo, forse più di uno, ma uno ha raggiunto la feritoia d’ispezione con un’angolazione tale da colpire il guidatore al collo. A quel punto il furgone ha perso il controllo finendo fuori strada e rovesciandosi su un lato; nel frattempo nel retro è nata una colluttazione tra la guardia e il detenuto liberato, sono partiti altri colpi, uno dei quali ha quasi sicuramente ucciso uno degli altri detenuti, quello ancora legato con le manette. La guardia al posto del passeggero ha dato l’allarme via radio, poi ha preso il fucile dalla rastrelliera in cabina, ha aperto la portiera dal suo lato e si è appostata; c’erano tracce di sangue non compatibili con la traiettoria dei colpi successivi quindi immagino fosse ferita per via dell’urto. Intanto dietro, il detenuto ha avuto la meglio sulla guardia uccidendola, di seguito ha liberato i due compagni rimasti usando le chiavi sottratte alla guardia stessa… Il primo detenuto che ha messo il naso fuori dal portellone si è beccato una fucilata dritta al petto, ed è rimasto sulla carreggiata esattamente dove lo abbiamo trovato stecchito. Gli altri due hanno atteso. La guardia appostata ha probabilmente detto loro di deporre le armi, o qualcosa del genere, richiesta non accolta. Il tipo armato a quel punto deve essere strisciato fuori, rasentando il fondo del telaio e l’albero motore – quando ritroveremo la sua uniforme carceraria avrà probabilmente tracce di grasso – per poter aggirare la guardia. Cosa che gli è riuscita visto e considerato che la guardia è riversa contro la portiera, il fucile finito nel fosso dove lo avete ripescato. Ma la guardia non era morta. Il secondo detenuto a quel punto è uscito e i due si sono incamminati verso i campi. La guardia deve aver estratto la sua pistola d’ordinanza e fatto fuoco, ferendo uno dei due: a cinque metri di distanza dalla carreggiata ci sono tracce di sangue sugli steli dell’erba alta. Il detenuto armato deve aver risposto al fuoco, finendola. Quindi, signori, abbiamo due uomini in fuga, in direzione dei campi, uno dei quali ferito più o meno gravemente.”

Nessuno aveva fatto un fiato per tutto il monologo.

Il primo a parlare fu un agente della cinofila che riferì di un cadavere ritrovato a circa un miglio nei campi, nella direzione indicata da Bower.

“Troy D’Amico. Colpito allo stomaco, morto dissanguato.”

Più gravemente”, disse Bower.

Si fece passare da un agente la cartella che riportava la lista degli orari degli spostamenti e i nomi dei detenuti.

“Quindi non resta altri che Patrick Voss.”

“Sì, signore. Brutto soggetto, una fedina penale lunga un braccio: è passato dai furti d’auto alle rapine fino all’omicidio plurimo aggravato… escalation criminale quasi da manuale.”

“Sarei pronto a scommettere che era il signor Voss quello seduto in fondo a destra.”

Voss parcheggiò il Bronco nella stazione di servizio di Dale Grove, a distanza di un metro dalla pompa della super.

 Il parcheggio era deserto.

E anche il mart lo era: Voss attese in auto qualche minuto per accertarsene. Poi scese e fece il pieno con comodo.

Quando entrò un campanellino avvisò il commesso.

Voss si diresse verso i frigoriferi e prese un paio di bottiglie di birra prima di recarsi alla cassa.

 “Il conto della pompa e queste”, disse mettendo le birre sul banco.

Mentre il commesso batteva sui tasti del registratore di cassa, gli chiese:

“Sei solo stasera a lavorare?”

“Sì, signore”, disse Miles.

“Nemmeno un capo rompicoglioni che ti spia dall’ufficio?”

“No, solo io.”

“Brutto turno quello del sabato sera. Niente giretto con la tua ragazza.”

“Ci sto lavorando.”

“Buon per te. E, senti un po’… le telecamere là fuori, tipo registrano?”

“No, vanno in diretta, niente registrazioni.”

“Dunque, ricapitoliamo, tu sei solo e le telecamere non registrano ma vanno in diretta, e dato che tu sei solo, l’unico che potrebbe vedere quelle immagini, e tipo chiamare le forze dell’ordine sei soltanto tu, dico giusto…”, Voss si sporse a guardare il cartellino dell’altro, “… Miles?”

Miles cominciò a sentirsi un po’ a disagio.

“Bene, allora mi dai queste birre, il conto della pompa”, Voss tirò fuori la pistola puntandola in faccia a Miles, “e tutto il contenuto della cassa. Cioè, se non vuoi che ti spari dritto in mezzo agli occhi, Miles… siamo intesi?”

Miles rimase fermo come quando ti fanno una foto, solo che non sorrideva.

Voss avvicinò un po’ di più la pistola.

“Non ti ho sentito.”

“Sì… sì… intesi.”

“Allora, tipo che cazzo aspetti ad aprire quella cassa?”

A bordo dalla sua moto, Tetch si stava recando all’appuntamento.

Era in ritardo e stava filando come un matto, tirando dritto sulla linea di mezzeria come un naso su una striscia di coca.

Alla sua destra le auto-lumaca scorrevano come frame di pellicola in un riavvolgitore; sorpassò l’ultima – appena un bagliore giallo e nero nello specchietto retrovisore – piegando sulla curva successiva e sentendo distintamente il rumore di una frenata e lo strombazzare molesto d’un clacson.

Fece il dito medio.

“Ho fretta stronzi”, smoccolò tra sé.

Poco dopo arrestava la moto all’inizio di una piccola collinetta erbosa nei presi del centro di Dale Grove.

Lei era già sulla panchina dei giardini pubblici poco dietro la stazione di polizia, la terza lungo il viale, quella che a lui piaceva considerare ‘la loro panchina’ da quando tre mesi prima lo avevano fatto lì sopra; il brivido di scopare in un luogo pubblico sotto il naso degli sbirri.

E ora un altro tipo di brivido, sempre lì, con gli agenti a una quarantina di metri di distanza, separati solo da qualche albero, una siepe e un muro.

Tetch vide che non era seduta, ma in piedi, le braccia incrociate sul petto e gli occhi rivolti al cielo. Sospirò preparandosi al peggio.

Okay era in ritardo, okay, ma non aveva voglia di lavate di capo, si disse mentre le si faceva incontro.

“Cristo, saranno venti minuti che aspetto, Tetch!”

“Ho avuto da fare.”

Hope scosse la testa facendo oscillare i codini rosa. “Questo è importante, capito? Tutta questa cosa è importante.”

“Sì, sì, importante, okay. E anche pericolosa.”

“No, è tutto facilissimo invece. Praticamente una boiata, Tetch-Tesoro…”

“Se lo dici tu…”

“Senti, è impossibile che qualcosa vada storto. Ho bisogno di sapere se ci stai, cioè me lo devi garantire ora. Roba che poi non si torna più indietro.”

“Come la metti giù drammatica.”

Hope sbuffò e tornò a mostrare il broncio, le braccia di nuovo conserte.

“Okay, ci sto. Sono dentro, come si dice in questi casi. Garantito al limone, contenta?”

“Ricorda, lo hai appena promesso”, lo additò lei mentre tirava fuori il cellulare dalla tasca.

“Chi chiami?”

“Uno dei tipi che lavorano con me alla stazione di servizio, un coglione. Ha una cotta per me. Sai, non ci tengo a essere lì mentre succede; meglio avere un alibi.”

“Se è facilissimo e niente può andare storto a che ti serve un alibi?”

Hope non gli rispose, anzi si volse dandogli le spalle.

Un istante dopo la sentì dire:

“Ehi ciao… Sì, immaginavo che probabilmente saresti stato tu… Mi stavo chiedendo se potevi farmi un favore… Sei tanto caro, lo sapevo che avrei potuto contare su di te… Lo avverti tu Pops?…

Sei un tesoro, Miles. Una sera di queste ci beviamo una cosa insieme, se ti va…”

Chiuse.

“Ecco fatto.”

“Non vorrai davvero uscirci con quel tipo?”, fece Tetch.

Lei si voltò; aveva una strana luce negli occhi ora, che li rendeva più lucidi, feroci. “Scherzi? Se in quella cassaforte c’è tutto l’incasso degli ultimi mesi – come immagino – nemmeno ci torno più in quel buco di merda.”

“Hai lo schema?”

Hope gli porse un bigliettino piegato in quattro.

“Questa è la piantina del retro, studiatela bene. Farò in modo di passare lì dopo pranzo e lasciarti aperta la finestrella dietro, dato che la porta sarà chiusa… e di quella solo Pops ha le chiavi. Non preoccuparti per le telecamere, non registrano, e Popsy-Bello non ci sarà: quel grassone porta il suo amichetto a spassarsela al motel il sabato sera. Ci sarà solo quell’idiota di Miles, e lui non si sposta dalla cassa cascasse il mondo. La cassaforte è nell’ufficio, dietro un quadro di merda con un cowboy. Sul retro del foglietto ci sono i numeri della combinazione, con le freccine su così non mandi tutto a puttane, neanche se ti ci impegni.”

“Tutto qua? Non ci saranno sorprese?”

“Te l’ho detto, facilissimo. Dentro e fuori senza che nessuno se ne accorga…”, Hope mostrò un sorrisetto allusivo, “… cioè come me la notte scorsa.”

“Guarda, brutta stronza, che sono in grado di allungarti due ceffoni da lessarti le guance per una settimana”, stava per dirle Tetch; invece, le tolse solo il fogliettino dalle mani e ci diede un’occhiata. Meglio non creare tensioni, specie quando si parla di soldi. E a tal proposito… “Ma di quanti soldi stiamo parlando?”

“Diverse migliaia, come minimo”, disse Hope mentre le squillava il cellulare.

Quando vide lo schermo fece:

“Oddio, è ancora quella testa di cazzo di Brad, il mio ex. Mi sta dando il tormento…”

“E tu non rispondere.”

“No, la deve capire una volta per tutte che abbiamo chiuso”, affermò lei.

Si portò il telefonino all’orecchio.

“Senti Brad, brutta testa di cazzo, la vuoi capire che è finita? FINITA! Non voglio più saperne di te, mi devi lasciare in pace. IN PACE, hai capito?”

Riattaccò di colpo.

“Avrà capito?”, disse Tetch.

“Lo spero per lui, o sarai costretto a dargli una lezione, uno di questi giorni.”

“Nessun problema, te lo sistemo io…”

Tetch si rigirò il foglietto tra le mani.

“Ma una cosa per volta… prima facciamo cassa.”

“Allora, con questa cassa, ci muoviamo? Non è che ho tutta la notte…”

Con le dita che gli tremavano, Miles aprì il registratore e mise mano alle banconote. Pensava: Ora tu gli dai i soldi e lui se ne va… tra poco sarà tutto finito… non ha nessun motivo per ucciderti… vuole solo l’incasso e poi se ne va via…

Fece una manciata di tutte le banconote e le mise sul ripiano del banco.

Si chiese se avesse dovuto porgergliele invece, si chiese se si stava comportando nel modo giusto per non lasciarci la pelle, e se c’era un modo giusto, se avrebbe rivisto i suoi l’indomani, se Pops si sarebbe arrabbiato con lui, se sarebbe davvero riuscito a uscire con Hope.

Si chiese tante cose inutili.

Voss diede un’occhiata al malloppo. “

Tutto qui? Saranno tipo trecento dollari. Questi non mi bastano.”

“In cassa non c’è altro. Molti pagamenti sono con carta di credito e.…”

“E magari il tuo capo li tiene da qualche altra parte, gli incassi. Magari ha tipo una cassaforte nel suo ufficio.”

“Io… io… non lo so.”

“Allora io… io… te lo chiedo una seconda volta, poi ti apro un cratere nella faccia.”

Miles sentì le gambe cedergli.

“Non… non conosco la combinazione.”

“Ah, mi sa proprio che tu spari un sacco di cazzate, bello. Mi sa che dovrò farti ragionare io. E conosco un modo infallibile…”

Voss gli sventolò l’automatica sotto il naso.

“Io e la mia amica qui.”

“No la prego, non la conosco, lo giuro…”

In quel momento il rumore di un’auto che parcheggiava li fece voltare entrambi.

Videro il bagliore dei fari riflettersi sulla vetrata, poi si spensero e una portiera venne sbattuta.

Voss prese una decisione al volo.

Si ficcò la manciata dei soldi in tasca e scavalcò il bancone agile come un gatto, acquattandosi sotto Miles.

Gli puntò la pistola contro l’inguine.

“Una parola e ti spacco in due, chiaro?”, disse piano.

L’istante dopo la porta del mart si aprì con uno scampanellio.

Miles cercò di prendere un respiro.

Un tipetto basso con le mani in tasca, il cappuccio della felpa calato sul volto e uno zainetto in spalla si infilò tra i reparti, riemergendo quasi subito con in mano un paio di snack al cioccolato, una confezione di gomme e una bottiglia d’acqua.

Mise tutto sul bancone, accanto alle birre.

“E dovrei anche andare al bagno.”

Miles si accorse che era una ragazza.

Ne intravide il profilo nel varco del cappuccio, tratti minuti e graziosi, un paio di piercing, al naso e accanto al labbro, corti capelli neri un po’ arruffati e gli occhi tristi di chi ha passato una brutta giornata… Be’, nel caso, siamo in due…

Miles fece un cenno con la testa.

“La porta lì, e poi in fondo a destra… È aperto.”

Lei fece per andare, poi tornò a voltarsi verso Miles.

“Ehi, va tutto bene?”

“Sì, certo”, rispose Miles meccanicamente.

Lei guardò le due birre sul banco, corrugò la fronte, ma si mosse verso il fondo del locale.

Probabilmente è solo un giro di controllo, probabilmente non entra, non farti prendere dal panico, si era detto Tetch fino a un minuto fa.

Poi il poliziotto era entrato.

Adesso lo vedeva sullo schermo di una delle telecamere interne… era quello stronzo del sergente Delrey.

“Ma che cazzo…”, bofonchiò Tetch.

Doveva essere praticamente una passeggiata, infallibile, nessuna possibilità che qualcosa andasse storto. E adesso c’era quel cazzo di Delrey.

Ma Cristo, che ti prende, Tetch? Vedi di restare calmo. Nessuno sa che sei qui, nessuno verrà a controllare nell’ufficio di Pops. Ora tu apri la dannata cassaforte, agguanti il bottino e poi fili via come sei entrato. Recuperi la tua moto a due isolati di distanza da qui e te la squagli veloce come il vento… Non si accorgeranno di niente fino a domani.

Tetch ruotò la maniglia d’acciaio lentamente e altrettanto lentamente aprì la cassaforte.

“Di quanti soldi stiamo parlando?”, aveva chiesto a Hope.

La cassaforte era vuota.

Inutile dire che non era quello che si aspettava.

Be’, proprio vuota no: c’erano dei documenti, una specie di registro, una scatoletta nera di plastica e una mazzetta in pezzi da venti e da cinquanta per un totale di cinque o seicento dollari.

“Diverse migliaia, come minimo”, aveva garantito Hope: gli incassi degli ultimi mesi. Poi Tetch si ricordò magicamente della parola chiave: immagino. ‘Se’… e ‘immagino’… Due paroline capaci di fregarti come nient’altro al mondo.

“Brutta stronza”, bofonchiò Tetch. “E stronzo io per averle dato retta. Ah, ma stavolta me la paga!”

Afferrò i soldi poi prese anche la scatolina nera.

“E tu cosa cazzo sei?”

Aveva una tozza antenna gommata e un piccolo display a cristalli liquidi con un paio di pulsati. Sembrava una specie di walkie talkie per bambini vecchio di vent’anni.

La scagliò in un angolo e quella e mise un ‘bip’.

“Vaffanculo pure tu.”

Okay, Tetch, è tempo di togliere le tende.

Prima di andarsene tornò a controllare le telecamere e vide che il tipetto basso di poco prima era tornato nel mart… e aveva l’attenzione di Delrey tutta per sé.

Ottimo! Miles era ancora al banco fermo come uno stoccafisso.

Proprio un coglione.

 Be’, passate una bella serata, rottinculo.

Tetch costò leggermente la porta dell’ufficio di Pops e scivolò lungo il muro fino al fondo del corridoio trasformato in magazzino.

Stava per arrampicarsi verso l’uscita quando vide una cosa. Una cosa che non gli piacque per niente.

Quella stronza di feritoia era chiusa. Per la prima volta si accorse della serratura e di un gancetto che serviva a tenerla aperta (che doveva essersi tolto mentre lui cadeva giù) altrimenti tornava a bloccarsi da sola.

Questo Hope mica glielo aveva detto!

Non c’era verso di forzarla o spaccare il vetro senza farsi sentire.

“Ma che cazzo…”, fece Tetch.

Era chiuso dentro.

Quando Becky tornò dal bagno vide subito il sergente Delrey dritto davanti a lei, quasi che la stesse aspettando.

“Bene, bene… chi abbiamo qui?”, disse Delrey, per poi rivolgersi a Miles. “A occhio direi il proprietario di quella spesa che hai lì sul bancone.”

Le tolse lentamente il cappuccio della felpa; con l’altra mano accarezzava sempre il suo revolver.

“Ah, Becky Simmons… ti stavamo cercando.”

“Sareste i primi oggi”, disse lei sprezzante.

“C’è una denuncia per furto d’auto…” Delrey indicò verso il parcheggio. “Quella Mustang là. Ne sai qualcosa?”

“Owen, che bastardo! Avrei dovuto immaginarlo un tiro del genere da uno come lui.”

“Rubare le auto non è uno scherzo. Passerai un bel guaio, ragazzina.”

“È un prestito.”

“Sentiremo i tuoi cosa avranno da dire in proposito. Ora svuota le tasche.”

Delrey tolse poco gentilmente lo zaino dalle spalle di Becky e lo rovesciò sul pavimento.

“Ehi, che modi!”, fece lei stizzita. “Eccolo qua, il braccio violento della legge all’opera…”

Caddero poche cose, tra cui il sacchetto del cellulare, l’incarto del sandwich e un portafoglio. Anche un coltello a serramanico.

“Le cose si mettono sempre peggio, ragazzina.”

“Ho il porto d’armi per quello.”

“Farei meno lo spiritoso se fosse in te.”

“Patrigno stronzo. Ti suona meglio così?”

Dal bancone Miles azzardò:

 “La lasci andare sergente, non ha fatto nulla di male…”

“Guarda che sei in grossi guai pure tu”, fece Delrey. “Vendere alcol a un minore è reato.”

“Ma quale alcol…”, cominciò a dire Miles, prima di accorgersi delle due birre sul bancone, assieme all’altra roba.

“Oh…”

Da sotto sentì aumentare la pressione della canna contro l’inguine e si fece subito silenzioso.

La sua mente però prese a girare all’impazzata… Delrey sarebbe uscito per comunicare che avevano trovato l’auto rubata? Avrebbe chiesto di contattare i genitori della ragazza per dire che l’avevano rintracciata?… No, forse l’avrebbe portata direttamente alla centrale e poi mandato qualcuno a recuperare la macchina. E questo voleva dire locale sgombro, e il tipo che stava tenendo in ostaggio le sue palle aveva via libera per andarsene… Ma poi chi gli garantiva che quello se ne sarebbe andato così, senza fare storie? Magari tutta la faccenda della cassaforte gli bruciava ancora. E se avere Delrey lì era l’unica possibilità di salvarsi?

Per poco a Miles non pigliò un colpo quando il beeep del microonde segnalò che il burrito era pronto.

Il sergente Delrey si voltò un attimo, poi tornò a guardare in direzione di Becky… e vide una cosa che gli fece mettere mano alla pistola.

“Ehi tu, ti ho visto! È meglio se vieni fuori di lì…”

Fottuto, sono fottuto, è quello che si stava ripetendo Tetch. E adesso che faccio? Come esco di qua? Le feritoie in cima ai cessi erano troppo strette per passarci, questo lo sapeva, l’unica porta sul retro era chiusa a tripla mandata e l’ufficio di Pops non aveva finestre. Proprio un bel guaio…

Prese un gran respiro e cercò di trovare la calma.

La soluzione era proprio davanti a lui… be’ alle sue spalle in questo caso. Sarebbe semplicemente uscito dalla porta principale. Diventava tutto molto semplice se visto da questa prospettiva, non doveva fare altro che tornare nell’ufficio di Pops e incollarsi ai monitor delle telecamere: non appena quel grassone di Delrey e il ragazzino con la felpa avessero levato le tende lui sarebbe semplicemente sbucato dal retro passando davanti a quel Miles, o-come-cazzo-si-chiamava, e poi uscito dalla porta principale. Che gli dicesse pure qualcosa, lo avrebbe mandato affanculo! Gli avrebbe sparato un doppio dito medio e tanti saluti. Ero nel retro che mi facevo i cazzi miei, problemi?

Forse sarebbe stato il caso di rimettere a posto i soldi di Pops, inutile rischiare per pochi spicci. Se niente mancava all’appello nessuno si sarebbe fatto saltare la mosca al naso.

Bene, hai un piano, Tetch, mettiti in azione.

Primo punto: tornare nell’ufficio.

Solo dopo aver scostato la tendina, pronto a imboccare il corridoio di destra, si rese conto che il ragazzino con la felpa aveva lasciato aperta la porta che conduceva al mart.

Nel varco si poteva scorgere lo stronzetto con Delrey piantato dritto davanti, e se lui li poteva scorgere…

Vide il sergente mettere mano alla pistola. Sentiva la mazzetta coi contati di Pops bruciargli nella tasca.

 “Ma… che… cazzo…”

“Ehi tu, ti ho visto! È meglio se vieni fuori di lì…”

Questo era il genere di frase che né Voss, né tantomeno Miles, avrebbero mai voluto udire.

Miles sentì Voss irrigidirsi e per un attimo si vide i propri testicoli passargli davanti agli occhi in una scia rossa di sangue e finire spiaccicati al soffitto. In realtà Voss si limitò a scostarselo di dosso mandandolo gambe all’aria.

Voss era già per metà oltre il bancone, la pistola puntata quando si rese conto che quel dannato poliziotto non ce l’aveva con lui: aveva estratto, ma teneva l’arma lungo il fianco e guardava dritto verso la porta del retro, da dove un ragazzotto sui venticinque anni, coi capelli tutti imbrillantati all’indietro e un giubbotto da motociclista stava emergendo con le mani alzate.

Voss sorrise.

Ancora una volta fortunato.

Un tiro facilissimo: avrebbe beccato quello sbirro alle spalle ancor prima che potesse voltarsi e alzare il braccio armato. E poi tutto il resto sarebbe stata una pura formalità.

Addio porco! Era pronto a fare fuoco quando… ‘Din din’

‘Din din’… il campanello della porta.

Il tipo entrò nel mart come una furia.

“Hope, dove cazzo sei! Vieni fuori, lo so che sei di turno stasera! Nessuno lascia Brad così, hai capito? Nessuno mi molla e mi chiude il telefono in faccia…”

Brad aveva fatto gli ultimi dieci metri a testa bassa, rimuginando tra sé, furioso come un toro alla carica, e questo fu ciò che vide dopo aver spalancato la porta: al bancone non c’era Hope, e nemmeno un altro commesso, c’era un tipaccio con una camicia scozzese che aveva il braccio steso e in quella mano c’era una pistola e la testa si stava voltando nella sua direzione; e vide sul fondo del locale un poliziotto – il sergente Delrey, per la precisione – che pure si stava voltando nella sua direzione e pure lui aveva una pistola (un revolver, in questo caso) stretta in pugno; e vide un ragazzino con la felpa e poco più in là un tizio più alto coi capelli impomatati di brillantina, che teneva le braccia alzate, ma questi due gli diedero meno pensiero.

Una fugace riflessione gli attraversò la mente: Brad, mai più entrare in un locare, specie se ha pure il beneficio delle pareti a vetri, senza dare un’occhiata a quello che succede dentro, chiaro!

Poi sentì gli spari.

Vide Delrey ruotare su sé stesso come una marionetta prima di accasciarsi, e vide il tipo in camicia scozzese rivolgerli, a quel punto, la pistola contro.

Ma un colpo scheggiò il bancone e il tipo si rintanò sotto, mentre Delrey, il braccio che reggeva l’arma puntellato contro un fianco, cercava di trascinarsi al riparo in una corsia, lasciando una scia di sangue dietro di sé.

Camicia Scozzese mise la mano fuori e fece partire un paio di colpi alla cieca in direzione di Delrey, attese una risposta che non ci fu, poi si sporse di nuovo.

Felpa e Brillantina, intanto, si erano buttati a terra.

Brad urlò.

“Fanculo Hope!”

Si voltò verso la porta deciso esclusivamente a filarsela, quando vide il vetro davanti a lui incrinarsi a raggera mentre uno spruzzo di sangue lo inondava.

Di seguito sentì solamente il proprio corpo cadere di lato.

Voss sparò al tipo che era entrato prima che potesse scappare.

Poi tornò a chinarsi.

Visto che c’era diede anche un colpo sul grugno al commesso col calcio della pistola, nel caso gli fosse venuta la bella pensata di tentare qualche mossa della disperazione, tipo disarmarlo, o provare a scappare. Aveva beccato il porco, ma non lo aveva ucciso. Se quello stronzetto non avesse deciso di entrare proprio in quel momento… Bah, ad ogni modo aveva avuto il fatto suo.

Lo sbirro era ancora vivo ma di certo era conciato male. E aveva un revolver di quelli a cinque colpi, aveva notato Voss un attimo prima di rintanarsi sotto il bancone.

Era pronto a scommettere che non avesse uno speedloader di riserva, il panzone.

Gli venne in mente un’idea: puntò la pistola verso il commesso.

“Miles, giusto? Faresti una cosa per me? Alzati… tipo adesso.”

Miles stava cercando di fermare il sangue dal naso.

Non si mosse.

“Oppure ti sparo.”

Miles si mosse.

In quel momento Voss gridò:

“Sono qua porco, vieni a prendermi!”

Miles sentì il colpo sfrusciargli a un paio di centimetri dall’orecchio prima di far esplodere uno dei distributori di bibita.

Un secondo colpo fece saltare il microonde.

Poi evidentemente Delrey si era reso conto del tranello.

Miles che era rimasto fermo, impietrito, mentre i proiettili lo sfioravano, si lasciò cadere di nuovo a terra, fregandosene del permesso di Voss, o delle conseguenze.

Voss disse tra sé: due colpi ti sono rimasti.

Agguantò Miles per la camiciola della divisa del mart, una roba oscena azzurra con due righine rosse all’altezza delle braccia, e lo fece rialzare.

“Andiamo a farci un giro… Fammi strada.”

Usandolo come scudo umano aggirò il bancone, il braccio con la pistola steso sopra la spalla destra di Miles.

“Niente scherzi, eh…”

C’era una bella scia di sangue a tradire la posizione dello sbirro, come una lunga bava di lumaca.

Quando Voss raggiunse i due stesi a terra sentì la ragazzina dire all’altro:

“No, resta giù…”

Ma l’altro non era così furbo, o si credeva di esserlo troppo, perché aveva cercato di sgattaiolare di nuovo verso il retro; e Voss gli sparò dritto nel culo.

Lo vide cadere a terra urlando.

La ragazzina invece era in gamba e rimase ferma mostrando le mani…

Brava ragazza, pensò Voss.

Si voltò verso la lunga bava di sangue: piegava in direzione dell’ultimo reparto. Ci spintonò dentro Miles con forza e non appena udì il fragore dello sparo si buttò nella corsia a fianco.

Te ne resta solo uno, si disse mentre raggiungeva il fondo e tirava un calcio a un carrellino su ruote carico di barattoli di zuppa istantanea, sentendo l’ultima, agognata detonazione.

Quando si sporse vide il poliziotto a terra a pochi passi da lui, oltre il margine della corsia: si era trascinato fin lì lasciando una traccia di sangue per tutta la corsia adiacente.

Quasi degno di stima, ritenne Voss.

Aveva un buco nelle budella, come Troy, spacciato come lui, e gli teneva il revolver puntato contro continuando a far fuoco a vuoto. Clic, clic, clic

Alla fine, lasciò cadere il braccio, sdraiandosi a terra.

“Ti prego, non uccidermi…”

Voss gli piantò un proiettile in mezzo agli occhi poi tornò dagli altri.

Miles era accovacciato all’inizio della corsia e si reggeva un braccio con l’altra mano.

“Un colpo di striscio, buon per te che quel porco avesse una mira di merda”, gli disse Voss.

Lo agguantò per l’altro braccio trascinandolo verso il punto in cui erano stesi la ragazzina e il tipo col proiettile nel culo, che stava mugugnando qualcosa molto flebilmente, o forse stava piangendo.

“A terra pure tu, Miles. Tutti fermi qui, da bravi, eh.”

“Ora puoi andartene… non ti ferma più nessuno”, disse Miles sofferente, la mano che passava dal tamponarsi il braccio ferito a ripulirsi il naso dal sangue.

“C’è ancora la questione della cassaforte.”

Proiettile nel culo bofonchiò:

“È vuota… quella troia è vuota.”

“Sai che c’è, ti credo. In fondo tu eri là dietro per un motivo, giusto?”

A quel punto Voss si mosse verso l’uscita.

Controllò che fuori non ci fosse nessuno e tolse il ragazzo che era accasciato lì davanti tirandolo per i piedi fin dietro al bancone.

Poi fece per andarsene… ma invece di varcare la soglia si voltò, tornando a puntare la pistola contro i tre stesi sul fondo del mart.

“Fossi in te taglierei la corda all’istante”, gli disse la ragazzina. “Col casino che hai fatto ti saranno addosso a minuti.”

“Sì, ma vedi, c’è un’ultima questione, tipo che potreste parlare agli sbirri del furgone là fuori, e vorrei proprio arrivare a El Paso senza beccarmi un posto di blocco… oopppsss… questo non avrei dovuto dirlo, adesso sapete dove sono diretto…”

“Cazzo, ma l’hai fatto apposta?”, esclamò Miles.

“Non darti pena ragazzo, non hai avuto fortuna questa sera. È tutto qui, il segreto, la fortuna. E io sono uno fortunato.”

Voss si preparò a sparare.

Dietro di lui le pompe di benzina esplosero.

Le confezioni dei due Superburger Ranck con doppia pancetta e salsa chili erano aperte come due bocche spalancate sulla scrivania di Pops, mentre Pops se ne stava comodamente accoccolato sulla sua larga poltrona da ufficio, soddisfatto che nemmeno un Budda.

La persona seduta davanti a lui si faceva chiamare semplicemente ‘il Signor Mac’ e attendeva paziente.

“Allora, a che punto siamo?”, chiese Pops finendo di pulirsi cerimoniosamente la bocca con una salvietta delle dimensioni di una piccola tovaglia.

“È tutto fatto. Pulito, non resteranno tracce.”

“Qualche traccia resta sempre.”

“Tutti i residui saranno spazzati via dalla combustione. Per quanto riguarda il detonatore…” Il Signor Mac tirò fuori dal marsupio che teneva allacciato in vita una piccola scatolina nera. La mise sulla scrivania scansando con la punta di un dito una delle confezioni bisunte, ma non la allungò verso Pops.

“Sì ho capito”, disse l’altro.

Fece ruotare la poltrona e si alzò con un certo sforzo.

Scostò il quadro del cowboy appena quel tanto che bastava a formare la combinazione, poi lo tolse e aprì la cassaforte.

Alla fine, lanciò una mazzetta in grembo al Signor Mac.

“Ecco la tua paga. Compratici qualcosa di carino.”

Il Signor Mac spinse col dito il detonatore attraverso il piano del tavolo.

“Sembra una specie di walkie talkie, di quelli per bambini”, giudicò Pops.

“In questi casi la semplicità premia. La plastica è solubile, la meccanica basilare. Un semplice impulso a radiofrequenza. Basta spingere il pulsantino. Il segnale ha una portata di cinquanta metri, puoi lasciarlo dovunque, meglio se nei pressi di un accelerante. Ora il timer è regolato sui sei minuti ma lo puoi settare fino a novantanove, così hai tutto il tempo di defilarti con comodo.”

“Lunedì, quando è giorno di chiusura, così nessuno ci va di mezzo.”

“Non ti facevo tanto sensibile, Pops”, gli disse il Signor Mac.

“La frode assicurativa è una cosa, l’omicidio plurimo colposo invece è una storiaccia molto più brutta, se qualcosa dovesse andare storto.”

“Ecco, ora ti riconosco. E comunque niente andrà storto.”

Pops soppesò la scatoletta nera valutandone i settaggi.

“Radiofrequenza hai detto?”

Si guardò attorno, poi la ficcò dentro la cassaforte.

“Meglio se sta al sicuro fino a lunedì, allora.”

Dato che c’era tolse anche le altre mazzette di denaro, inutile tenerle lì; lasciò giusto qualche spiccio per le emergenze e richiuse tutto.

Il Signor Mac fece scorrere il pollice sui soldi prima di infilarli nel marsupio.

Pops scostò leggermente il cappello da cowboy che calzava sul testone calvo per detergersi il sudore dalla fronte nonostante l’aria condizionata.

“Malfidente.”

“So con chi ho a che fare”, disse il Signor Mac alzandosi. “Passa una bella serata.”

“Oh, i miei sabati sera sono tutti belli”, affermò Pops afferrandosi il pacco. “Non so se mi spiego…”

In quel momento squillò il telefono fisso appoggiato sulla scrivania e lui rispose con un grugnito, la manona che sembrava un rotolo di salsicce stretto attorno alla cornetta. Un altro paio di grugniti poi:

“Senti, me ne sbatto di chi c’è, basta che il turno sia coperto, comprendido! Sia chiaro che non ti vale come straordinario, sia chiaro…”

“Problemi?”, chiese il Signor Mac.

“Solo un coglione di commesso”, disse Pops attaccando.

Prima che l’altro infilasse la porta gli chiese:

“Ehi Mac… quanto sarà forte il botto?”

“Tre chili di ammonal con innesco all’azoturo di piombo piazzati contro il serbatoio di benzina principale sotto alle pompe?… Dico, hai presente il Vietnam, amico?”

L’esplosione ebbe l’effetto dirompente di un terremoto.

Lo spostamento d’aria fece deflagrare tutti i vetri verso l’interno mentre la vampa di fuoco incendiava i prodotti delle prime scansie direttamente sul posto e faceva volare via quelli dalla corsia successiva in poi.

Una specie di meteora scura di quasi cinque metri andò ad abbattersi contro il pilastro di sostegno di fianco all’entrata, spaccando il cemento in due mentre ci si accartocciava contro: l’auto di pattuglia di Delrey.

Il boato assordante sembrò colpire Miles come un pugno e in un primo momento non capì bene cosa stesse succedendo… solo che non era più in piedi ma sul sedere, la terra che per qualche istante aveva tremato sotto di lui.

La ragazza con la felpa – Becky, l’aveva chiamata Delrey – stava cercando di tirarsi su.

Il tipo sbucato dal retro era ancora steso.

Attorno a loro il fumo dell’incendio cominciava a ridurre la visuale e a rendere l’aria irrespirabile.

Miles guardò verso l’entrata: un muro di fuoco.

Cadendo aveva intravisto il tizio armato che era proprio a due passi dalla porta volare via come un fantoccio di pezza, la schiena incendiata. Ora si trovava bocconi al centro del mart, la camicia e i pantaloni bruciati con ancora qualche fiammella guizzante, la pelle ustionata fino a esporre in più punti il muscolo e la nuca senza più capelli. La pistola era ancora stretta nella sua mano destra come se gli si fosse fusa insieme.

Che brutta fine pensò, Miles. Non eri poi così fortunato.

Sentì che Becky lo artigliava per un braccio, quello sano, l’altra mano a ripararsi la bocca dal fumo.

“Dobbiamo uscire di qui prima che crolli tutto. C’è una porta sul retro?”

“È chiusa, solo Pops ha le chiavi. E quando non c’è chiude tutto. Ci costringe a fare il giro, per l’immondizia.”

“Sono affranta per voi. Ma a questo punto non ci resta che uscire dal davanti.”

“In mezzo alle fiamme?”, tossì lui.

“Ci sono dei varchi. Ci facciamo strada con un estintore… ce l’avrai almeno un estintore.”

“Sul retro, appena dietro la porta.”

“Ricevuto, ci penso io.”

Becky diede un’occhiata al ragazzo col giubbotto da motociclista: era privo di sensi. “Preparati, dovremo portarcelo appresso”, disse prima di muoversi.

Miles pensò che forse si sarebbero dovuti portare dietro anche l’altro ragazzo. Se era ancora vivo. Occorreva controllare. E il bastardo armato, fottuto stronzo e sequestratore di palle? Che fare con lui? Un bel dilemma, fortuna che probabilmente era già morto.

Quando fu lì lì per scavalcarlo Voss aprì gli occhi.

Voss aveva sentito l’impatto sollevarlo di peso un attimo prima di perdere i sensi.

Quando si riebbe avrebbe desiderato di non risvegliarsi.

Era faccia a terra sul pavimento e un dolore lancinante gli percorreva tutto il dorso del corpo a ondate, dalle gambe fino alla cima della testa, come se stesse friggendo di schiena su una padella.

Intorno a lui ogni cosa era sottosopra e arrostita… cioè come immaginò doveva essere anche lui.

Ma che diavolo era successo?

Esplose… le pompe di benzina dovevano essere esplose, ecco cosa! E io proprio lì, a beccarmi lo scoppio dritto nel culo!

Be’, guardiamo in faccia alla realtà, si disse per la seconda volta in quella giornata (solo che stavolta era lui a giacere disteso, e non Troy, una differenza non da poco), a conti fatti non hai molte speranze di cavartela… Ma non sei ancora completamente fottuto e ti restano ancora delle scelte. Tipo non andartene da solo, tipo che si ricordino di questa notte e di quello che hai fatto, che se lo segnino per bene tutti sul loro fottuto calendario questo giorno, e chi era Patrick Voss!

In fondo quelli come lui, se non possono svignarsela con il malloppo in un qualche paradiso tropicale senza estradizione, aspirano almeno a un finale col botto.

E questo, e non ci stanno cazzi, lo aveva proprio avuto!

Si accorse che quel ragazzetto, Miles, si stava avvicinando e si accorse anche di avere ancora la pistola stretta in mano.

Cercò di combattere il bruciore straziante che gli inondava metà del corpo e si disse: Diamo un senso alla serata.

Con uno scatto afferrò il piede di Miles, facendo forza per tirarselo giù, verso l’altra mano che brandiva la pistola… gli avrebbe piantato un proiettile nello stomaco, tipo Troy…

Questo è per te, amico!

Vide Miles cadere in ginocchio, ma portare entrambe le mani istintivamente verso la sua che reggeva l’arma.

 Bel riflesso, ragazzo, quasi degno di stima.

Fece partire lo stesso un colpo, giusto per spaventarlo, per costringerlo a mollare la presa.

E in effetti una delle due mani mollò la presa… solo che gli finì contro la schiena, in mezzo alle sue carne bruciate.

Urlò.

La pistola gli cadde e vide l’altro tentare di afferrarla.

Tentò anche lui di prenderla, ma dovette ruotare su sé stesso.

Urlò di nuovo.

Sentiva li bruciore fin dentro al corpo e gli occhi inumidirsi di lacrime per il dolore e per il fumo.

Sopra di loro frammenti dei pannelli in polistirolo del controsoffitto piovevano in una lenta nevicata di fuoco e alla fine anche una delle travi cedette, abbattendosi tra i due come un colpo di mannaia.

Mancò Miles di un pelo e diede modo a Voss di raggiungere la pistola prima di lui.

Si tirarono su quasi contemporaneamente, ritrovandosi in ginocchio uno di fronte all’altro al centro del locale incendiato, Voss stringendo i denti per il dolore e con la pistola puntata contro il petto di Miles, Miles che sgranava gli occhi e perdeva sangue dal naso e da un braccio.

“Cristo, sta crollando tutto! Dobbiamo uscire! Che diavolo stai facendo!”, gridò Miles.

“Un giretto all’inferno, a quanto pare. Ma in compagnia.”

“Fottuto psicopatico del cazzo!”

“Almeno prima di morire sei riuscito a tirare fuori le palle, ragazzo. Dovresti ringraziarmi per questo. E anche per il fatto che porrò fine alle vostre, miserabili, sofferenze…”

Voss fece per premere il grilletto.

Ma a quel punto sentì un dolore nuovo, qualcosa che gli strozzò la gola in un lampo.

Non riusciva più a percepire il suo corpo, lo stesso braccio steso verso Miles sembrava quello di qualcun altro.

Anche il bruciore alle carni ora sembrava distante, sentiva solo la bocca riempirsigli di sangue e i sensi abbandonarlo in un lento appannamento.

Becky finì di rigirargli il coltello a serramanico nel collo, lo passava da parte a parte.

 “Non c’è di che”, disse.

I vigili del fuoco erano quasi riusciti a domare le fiamme; non che ci fosse molto da salvare.

Il mart era completamente sventrato, con fuocherelli che ancora divampavano al suo interno alimentati da una perdita di gas o finendo di consumare cataste di prodotti, e le pompe di benzina in pratica non esistevano più: la pensilina era stata sradicata da terra con tutte le colonne dall’esplosione, e ora giaceva zampe all’aria una ventina di metri oltre il parcheggio, al cui centro una tenace lingua di fuoco bruciava avvitandosi su se stessa come la fiamma di sfogo d’un pozzo petrolifero.

C’erano diverse auto della polizia e ambulanze.

Verso una di queste alcuni paramedici stavano spingendo un paio di barelle… i cui occupanti erano ancora vivi e vegeti, a giudicare dalle grida che giungevano fino al ciglio della strada, dove Miles e Becky erano seduti.

La prima voce diceva:

“È stata Hope, è colpa sua, è stata tutta un’idea sua, lo giuro!”, e la seconda le faceva eco ripetendo: “Fanculo Hope… Fanculo Hope…”

Li caricarono sulla medesima ambulanza e Miles pensò che così quel Brad e il tizio del retro avrebbero potuto continuare a discutere di Hope fino all’ospedale.

In quanto a lui stava iniziando a pensare che Hope non fosse poi tutto questo granché, okay era carina, ma aveva quei codini assurdi e rosa e il trucco troppo punk, ed era gentile, ma solo per manipolare gli altri e ottenere favori, e poi c’era anche il fatto che era indiscutibilmente una stronza.

Accanto a lui Becky se ne stava seduta all’indiana, le mani nelle tasche della felpa leggera ma senza più il cappuccio a coprirle il bel profilo.

Guardava verso un lato sgombro del parcheggio dove avevano sistemato i corpi del sergente Delrey e di quella specie di maniaco che li aveva aggrediti, un detenuto in fuga era parso loro di capire dalle voci che correvano tra gli agenti sopraggiunti; un pericoloso assassino. Non ne dubitavano. I loro corpi erano stati coperti da due teli bianchi in attesa dell’arrivo del coroner.

Becky guardò poi in direzione del mart che bruciava, e del resto delle cose che bruciavano, tra cui il Ford Bronco, scagliato in aria di una decina di metri e riatterrato sotto forma di rottame fumante, l’auto di pattuglia di Delrey, accartocciata contro ciò che restava del mart, e la Mustang di Owen, ribaltata ai margini del parcheggio, le fiamme che ancora soffiavano via dal serbatoio esploso.

“Dovrai dire ai tuoi che la macchina che gli hai fregato è finita in cenere”, le disse Miles.

“Dovrai dire al tuo capo che la stazione di servizio è saltata in aria mentre ci lavoravi tu”, replicò Becky.

“Credo che lascerò a quel tipo il compito di farlo…”

 Miles fece un cenno verso un tizio in un assurdo completo color violetto che si stava aggirando fra i resti incendiati, fissando ogni cosa come se potesse suggerirgli quello che era successo; sembrava particolarmente interessato alla dinamica dell’esplosione.

“Mi sa che tra poco saremo costretti a dargli qualche spiegazione”, disse Becky. “Fornire la nostra versione dei fatti…”

“Tyrone non ci crederà quando glielo racconterò”, sospirò Miles guardandosi la fasciatura al braccio.

Si voltò verso di lei.

 “A proposito, non ti ho ancora ringraziato per avermi salvato la vita.”

“Figurati. Basta che non diventi un’abitudine.”

“Sì, cioè… me lo auguro. Comunque io mi chiamo Miles”.

“Becky”, fece lei. “Sai, in questi casi si dice che ‘è stato un piacere’… ma spero che tu non ti offenda se per questa volta non lo dico.”

“No, nessuna offesa.”

Alle loro spalle molti curiosi stavano cominciando ad assieparsi.

La maggior parte filmava coi cellulari la stazione di servizio distrutta o si faceva un selfie della tragedia; probabilmente sarebbero diventati la notizia principale di Dale Grove nei giorni a venire… macché, di tutto lo stato! Detenuti in fuga, rapine, esplosioni… facile che per almeno un mese non si parlasse d’altro.

Alcuni presero a fare domande a Miles e Becky chiedendo se fossero stati presenti, se avessero visto tutto, se c’era davvero stato un assassino evaso che aveva dato di matto, se avevano visto qualcuno morire coi loro occhi, se erano stati uccisi agenti di polizia come si diceva, se era vero che il posto era esploso per un attentato terroristico… se… se… se…

Becky si era rimessa il cappuccio.

Miles notò a pochi passi da lui il cartello ‘Aperto – 24h’ mezzo bruciacchiato, volato via nell’esplosione e spinto fin lì assieme a tanta altra spazzatura del mart dal reflusso d’acqua delle pompe dei vigili.

Si allungò per capovolgerlo con la punta di un piede.

Disse:

“Spiacente, siamo chiusi.”

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