SOLO POCHE BRICIOLE di Silvana Picardi (prima parte)

 

Provo gioia a descrivere ciò che mi capita nella vita di tutti i giorni.

Ogni giorno ha per me un valore inesorabile dal quale posso ricevere.

Oltre la luce dei raggi del sole che si riflettono sulla pelle e soprattutto nel mio cuore, le cose, la gente, le parole, mi trasmettono gioia, tristezza, ricordi. Tutti sentimenti che mi aiutano a riflettere e a scrutare con occhi nuovi.

Oggi non sono quella di ieri e domani non sarò quella di sempre mi dico tante volte eppure, ci ostiniamo a non imparare niente.

Come è possibile, mi chiedo!

È da qualche giorno che rileggo tutto ciò che mi balenava nella mente tanto tempo fa quando Mariano mi chiese di scrivere. Si, proprio lui il mio psicoterapeuta. Ero andata da lui per fare la dieta.

Strano, che connessione c’è fra la dieta e il colloquio terapeutico? Ebbene si, Mariano era uno psicologo, specializzato in disturbi alimentari. Io che ho sempre avuto la tendenza a ingrassare e ho sempre avuto la tendenza a non essere mai contenta di me stessa, pensai bene di prendere due piccioni con una fava, così come si dice a Napoli.

Dimagrii? Onestamente non ricordo. Non sono mai riuscita a dimagrire più di due chili dopo aver fatto una dieta ferrea. Fui più contenta di me stessa?

No, non sono mai stata contenta di me.  Ho le gambe arrugginite e la mente infeltrita. Mi ostino a non cambiare, m’intestardisco a non dirottare i miei neuroni verso percorsi non abituali. Ci provo pure, ma imperterrito ritorno sempre sui miei passi.

E, così col passare dei giorni, dei mesi, degli anni resto sempre la stessa. La stessa di sempre con le sue malinconie, le sue certezze e le incertezze certe.

Ben ti sta” Vorrei dire a me stessa. “Di che ti lamenti, allora?”

Io, a dire la verità, non mi lamento, sono semplicemente arrabbiata con me stessa e nello stesso tempo non mi dispiace di essere così come sono.

Ci sarà una via di salvezza? Un rimedio a tutta questa confusione? BOH!”

Fra le tante cose che Mariano mi disse di fare, oltre alla dieta beninteso, dovevo scrivere dei temi. Il primo riguardava i primi dieci anni della mia vita.

Procedetti poi con il tema: la frutta della tua vita.

Strano, la frutta della tua vita! Venne fuori questo discorso perché durante la seduta Mariano mi chiese di parlare di mio padre ed io rievocai la storia delle castagne che avevo conservato per mangiarle in sua compagnia.

Un altro tema fu quello del sogno ricorrente.

Scrissi molto. Riempii pagine e pagine di cui quel magro e diafano psicologo dei miei stivali, si nutrì per benino. Io scrivevo, lui leggeva in mia assenza.

In presenza parlavamo di dieta ed io senza rendermene conto gli davo lo spunto per assegnarmi un nuovo tema. Già i terapisti fanno così e il paziente non si accorge di dire tutto ciò che ha dentro o quasi. Se sei forte e coraggiosa butti fuori ciò che ti è di peso. Se sei resistente, resta tutto in te e non ti sblocchi mai.

Così ho fatto io. Mi sono contentata delle briciole, così come fa lo scricciolo. Soddisfatto di quel poco nutrimento, svolazza all’impazzata felice nel cielo azzurro. Apparentemente festoso fra i rami della vecchia quercia prevede future sofferenze di stenti ma non si rammarica di sprecare l’energia accumulata nel tempo.  Dall’alto osserva la terra umida in attesa di cibarsi delle poche briciole che trova saltellando con quelle zampette sottili e denutrite che avrebbero tanto bisogno di rafforzarsi e avanzare con passi più fermi e resistenti. Invece? Invece traballa, traballa come sempre.

Da Mariano andai cinque o al massimo sei volte non di più.

La penultima volta ricordo che mi chiese di fare l’elenco dei miei pregi e i miei difetti.

Tutti dovrebbero scrivere questa preziosa lista. Scrivere la lista è come scrivere la nota della spesa da fare al supermercato: non si dimentica niente, ma proprio niente!

Cominciai così a scrivere che avevo molta pazienza ed ero molto tollerante, ma non ero simpatica e nemmeno socievole.

Cosa mi avrebbe prescritto di comprare Mariano? Pillolette di Pazienza, Tolleranza, Simpatia e Socialità da ingoiare per tollerare nella maniera giusta con   tanta pazienza e simpatia chi travolge la mia vita con molta socievolezza? Bella prescrizione sarebbe, bel rimedio vero?

Scherziamoci un po’ su, ma il successo sarebbe assicurato se io con un poco di impegno e buona volontà ingoiassi quelle pillole, ma io non sono forte, ho le gambe robuste e mollicce, la materia grigia insufficiente e soprattutto non ho il coraggio di pretendere ciò che mi tocca. 

Consapevole delle mie debolezze, ho preferito abbandonare la grossa impresa e da vero scricciolo, mi sono sfamata con quelle briciole che ho trovato   sparse qua e là sul mio cammino.

Mi rivedo affacciata al balcone a sorseggiare il mio caffè.

Sulla parte bassa della collina in fiore le spumeggianti mimose, nate da poco, si dondolano spargendo nell’aria un profondo profumo che risveglia il cuore.

In lontananza s’intravedono vecchi arbusti bruciati dal tempo. Soli, denutriti, saldi nella loro robustezza mostrano, al debole sole mattutino, la loro inquietudine, la loro solitudine.

Continuo a scrutare, a penetrare nell’intimità della natura e nella sua profonda e irrequieta esistenza mentre mi chiedo:

Questa è dunque la vita dei single?  Così è stata sempre la mia vita? Vivere in compagnia di frustrazioni e solitudine? Quella solitudine che ha sconvolto la mia vita e mi ha orientato verso scelte sbagliate?

Mi sono sentita sola da sempre. Sola a soli due anni senza la presenza di un padre. Sola senza la tenerezza di una madre, la presenza dei miei fratelli che vedevo una sola volta la domenica quando andavo a trovarli in collegio. Sola quando a soli sei anni dovevo stare in casa e attendere la mamma che tornasse da lavorare.

La mia era una solitudine atavica. Una solitudine che colmavo volgendo gli occhi verso la strada, col nasino schiacciato alla finestra e vedere il mondo al di là dei vetri.

Quando una persona nasce sola, porta dentro di sé il senso dell’isolamento. Il senso del vuoto, ma, il vuoto deve essere riempito.

Si cerca allora un padre, una madre, un fratello, un amico o un’amica che possa colmare quel baratro che è dentro sé stessi.

Per una strana sorte del destino ero rimasta sola anche da grande.

“Chi sa quanto incide nella vita dell’uomo il senso dell’isolamento!  Chi sa se le scelte che ho fatto nel mio percorso di vita   sarebbero state le stesse se non avessi vissuto il senso dell’abbandono.“

                                                                    

Com’è difficile scrivere e descrivere talvolta sensazioni che si provano e, com’è difficile descrivere il vuoto, lo sgomento che si sente dentro di sé. Si avverte un malore strano, non definibile!

Eppure, se quel malore potesse o volesse manifestarsi nella sua pienezza apparirebbe con luminescenza mostrando evidenti segni di sofferta agonia.

“Agonia?“

Perché aveva scritto agonia, la nostalgica Nenè? Cosa le balenava in mente ora? Quali erano i processi di pensiero che si ingarbugliavano, si intrecciavano saldamente come i fili di una lenza incapaci di sciogliersi per scendere nelle profondità del fondo marino?

Lei, lo sapeva.

Sapeva bene che ancora una volta non era contenta di sé stessa. Sapeva che lei non era nata con il fiocco rosa.

Ai suoi tempi, forse, non si usava benedire la nuova vita palesando ai vicini il lieto evento. Non si faceva, specie se nasceva una femminuccia! L’evento forse, non era proprio lieto dal momento che non era nato un maschio che avrebbe lavorato e avrebbe portato i soldi a casa.

Il fiocco però, ad essere sincera non si metteva nemmeno quando nasceva un maschietto.

Ma, tutti, proprio tutti sapevano che lei c’era.

Era nata!

Esisteva. Respirava. Viveva.

Che strano, eppure, a volte aveva la sensazione di stare fuori dal mondo. Sospesa, anzi ancorata nel suo Nadir, il nike name che, aveva scelto per navigare nelle Comunità emergenti fra la fine degli anni Novanta e gli inizi del duemila, non a caso rispecchiava la sua natura.

Ora, come allora, si sentiva lontana dal mondo alla ricerca di nuove conoscenze, alla ricerca di sé stessa.

Collocata nella sua posizione cercava di incontrare il suo Zenit pur sapendo che non l’avrebbe mai incontrato.

Percepiva intorno a sé figure vere e nello stesso tempo inesistenti come i tanti punti luminosi che incontrava in quella navigazione insolita.

Le persone delle Comunità frequentate erano reali, vere, autentiche nei loro sentimenti e nel modo di essere. Il loro essere, la loro essenza traspariva dal nickname, il colore e il carattere della grafia prescelta.

Erano proprio le immagini di quelle caratteristiche scelte dagli associati ai vari gruppi che permettevano di immaginare l’involucro della sagoma che conteneva quei pensieri e quei contenuti così profondi che trasparivano senza nessuna reticenza o ostentazione.

Non erano, o forse sarà meglio dire non eravamo, come il Cavaliere inesistente del Calvino, forti fuori e molli dentro. La nostra armatura era penetrabile, trasparente. Lasciava vedere ciò che era dentro quell’involucro da noi stesso creato.

Non conoscevamo il nostro vero nome ma, percepivamo i sentimenti, le emozioni, i modi di essere, i desideri, le ansie e i timori. Ci conoscevamo dal di dentro. Una conoscenza interiore senza nessuna specifica identità definita. Persone senza nome, senza autenticità eppure percepite autentiche, vere!

Che importanza poteva avere l’essere nati senza un fiocco rosa?

L’identità si costruisce col tempo, man mano che cresciamo. La forma vuota si dilata, prende corpo col procedere degli anni.

Ma lei, si ripeteva che era nata senza fiocco, non aveva una precisa identità.

Si dimenava dondolandosi fra la gente come un’altalena oscillante che vibra nell’area per sfidare il vento e poi si adagia per ammirare col volto spalancato il cielo. Poi, si ferma, solo un attimo, per stabilire un contatto sull’asfalto cocente.

Sì, per lei la terra scottava, la realtà la bruciava, l’agghiacciava, la tormentava!

Alcune volte, la frantumava quando decideva di scendere da quell’altalena di corsa anche quando non era perfettamente ferma.

Lei non era nata con il fiocco rosa.

Era nata sotto il segno della bilancia: questa era l’icona che caratterizzava la sua esistenza.

Molte volte mi sono soffermata a riflettere sul fascino dell’attesa e, molte altre ancora ho atteso…ripetutamente, vanamente!

Eppure, l’attesa ha in sé un fascino sorprendente, ti culla dolcemente trascinandoti lunghi i sentieri della fantasia con un celere sorprendente.

Tu sai di dover aspettare e sai quanto è dolce l’attesa. Così la gusti piano piano organizzando e preparando l’evento: il grande evento!

Guai se un’anticipazione interrompe il percorso che ti porta alla fine dell’attesa. Guai se, per un incauto pensiero che si inerpica in quel tuo percorso, ti arrovella la mente e tu, nuovamente devi percorrere un altro tratto, non quello immaginato pochi istanti prima.

Nascono così due percorsi paralleli a senso unico, è strano ma è così.

Un percorso che ti porta in avanti verso la meta della tua gioia e, un altro che ti ricaccia all’indietro al punto di partenza, al punto in cui e da dove tu vorresti partire. Bella l’attesa, si proprio bella!

Quanto mistero c’è in essa, quante e quante aspettative, quanti sogni, carezze trovate, abbracci voluti, baci mai dati, promesse mantenute! Si, in fondo aspettare è bello ti fa vivere.

Ti fa vivere e morire.

Ti fa morire e gioire.

Ti fa ridere e piangere.

Ti fa sognare di amare!

“Ti sei mai chiesto, dolce creatura cosa sia la parola ‘aspettare’?”

Aspettare, sì dico bene: A SPE TTA RE.

Non lo sai? Vieni qui, siediti acconto a me, te lo spiego io.

Prova per un istante, un solo istante a chiudere gli occhi ed immagina di aspettare

“Aspettare cosa?“ mi chiederai. “Una cosa qualsiasi: una semplice visita di un amico, l’attesa di una telefonata…ecco basta questo per intenderci”

“Si, ho capito…allora.”

 “Ecco, dicevo, immagina di ricevere magari una telefonata e ora dimmi cosa provi quando senti un dolce trillo.”

“Il cuore ti batte forte, non è vero? Non è forse vero che lentamente ti avvicini alla cornetta e cerchi di ascoltare numerose volte quel suono nella dolce speranza dell’attesa di ascoltare la voce che vuoi…il messaggio che vuoi.”

“Si è vero.”

“E dimmi ora, non ti capita la stessa cosa quando senti il bip bip dei messaggini?” “Si è vero.”

L’adulta Nenè attendeva, attendeva da una vita, in fondo aveva sempre atteso.

E chi non attende nella vita?

La sua attesa era però dolce, non le importava di aspettare invano, non si crogiolava nel tormento di un’attesa mai giunta a compimento. Il suo aspettare era dolce, dolce e movimentato.

Un aspettare fatto di preparativi che la rendevano ancora più bella, un aspettare che pian piano languiva nell’attesa di vedere almeno davanti a sé l’immagine muta: la semplice immagine dell’ometto verde del suo messenger.

Ma quando si collegava e lo vedeva tinto di rosso diceva fra sé:

“Io sono qui, ti aspetto.”

E, restava incollata col viso sullo schermo nella speranza che le parlasse.

Vagava e navigava per distrarre la sua attenzione.

“Mi contatterà all’improvviso”, si diceva.

“Verrà, verrà” e come era dolce quell’attesa fino a notte fonda.

Com’era triste poi quell’inutile attesa, ma il tutto durava poco. Si proponeva ancora un’altra attesa, quella del mattino, quella del pomeriggio, quella della sera!  

E, così facendo aspettava che il suo amore smettesse di riflettere.

Aspettava che l’uomo che aveva riempito le sue attese, la pensasse, la bramasse, la contattasse!

Invano, tutto era vano! Vano, ma bello.

“In fondo, in fondo”, si diceva:

 “Guai a non attendere più…guai a pensare di non sognare più un evento.”

Incontrarsi con il cuore

Quando la vidi la prima volta, mi piacque subito.

Gentile nell’aspetto e nel portamento manifestava lo stile di un’aristocratica. Aveva già i capelli bianchi quando la conobbi. Aveva appena cinquant’anni.

Quando il mio fidanzatino me la presentò ricordo che era intenta a pulire l’argento. Lo faceva con stile, con padronanza e con signorilità.

“Mamma, ti presento la mia ragazza.

Mi guardò semplicemente. Mi sorrise. Una corrispondenza fra labbra ed occhi in perfetta sintonia. Le piacevo ed io ne ero contenta.

All’epoca non andavo d’accordo con mia madre.

A essere sincera, con la mia mamma ho avuto un bel rapporto solo durante gli ultimi anni della sua vita.

Sempre nervosa, sempre arrabbiata rispondeva con tono severo.

Ci incontravamo fisicamente e mentalmente solo quando a tavola mi chiedeva:

“Com’è andata oggi a scuola?

Ci incontravamo quando mi guardava fissa negli occhi e m’interrogava su verbi e tabelline.

Mia madre mi amava, ma non me lo dimostrava, non sapeva come si manifestasse amore, ma io col tempo lo capii.

Non era forse la mia mamma che mi coccolava porgendomi un piatto di frutta quando studiavo? Quando mi faceva le mele cotte per il raffreddore e la tosse? Quando s’interessava a me facendomi mille domande?

Io non mi rendevo conto che il suo modo di essere mamma fosse un autentico comportamento di una mamma con tutti gli attributi.

Quando vedevo la mia amichetta Annarella con la sua mamma, soffrivo d’invidia. La baciava, le faceva mille moine.

Talvolta le vedevo ballare. Sembravano due ragazzine.

 Mia madre non era così. Assolutamente no.

Annarella però era sempre sola. La madre non si curava dei compiti e aveva anche i pidocchi.

Ho sempre nutrito il desiderio di stringere e abbracciare la mia mamma, ma da questo punto di vista non ci siamo mai incontrate.

Sì, ci baciavamo due volte al giorno, lo facevamo anche il giorno del compleanno, a Pasqua e Natale, ma erano baci stereotipati.

“Quando vai a scuola e quando rientri in casa, mi devi baciare, Mi devi salutare perché non puoi mai sapere se ci rivediamo”.

Mia madre non era come la mamma di Annarella che scompariva per stare in bella compagnia.

Mia madre aveva paura che le capitasse qualcosa, che qualche colpo all’improvviso la portasse via, via in un altro pianeta!

Aveva subito nella vita mille peripezie, aveva superato molteplici ostacoli e la sua paura era quella di venire a mancare senza aver dato la possibilità a noi figli di affrontare il mondo.

 Non credo di avere amato mia madre né da piccola né da ragazza e nemmeno quando, dopo aver adempito ai doveri di mamma affettuosa e premurosa per il nostro avvenire, era diventata meno rigida.

Mia madre era giusta, non pretendeva.

Durante l’anno scolastico dovevo semplicemente tenere le mie cose in ordine. Si preoccupava di farmi riposare quando svolgevo molti compiti.

Ora gioca un poco, la mente deve riposare.

 Durante il riposo giocavo con la corda oppure l’aiutavo a fare le patatine fritte che tanto mi piacevano. La sera, quando andavo a letto mi diceva di ripetere le materie orali.

La notte il cervello funziona, domani mattina la poesia la ricorderai meglio.

Solo durante l’estate dovevo sbrigare le faccende domestiche. Dovevo aiutarla a sbrigare le grandi pulizie e avevo il compito di lavare i piatti, ma non sempre.

In estate, ci premiava facendoci andare al mare per quindici giorni, Quindici giorni di allegria costati un lungo inverno di lavoro!

Povera mamma mia!

Bella quella mamma che avrei voluto abbracciare e stringere come faceva Annarella.

Perché non ci siamo incontrate con lo sguardo?

Perché non ci siamo incontrate con il cuore?

Perché non ho capito il suo amore?

Ho imparato ad amare la mamma in tarda età, quando a seguito di un incidente stradale divenne davvero dolce. Il tono delle sue richieste era zuccheroso. Gli slanci d’affetto penetravano nel cuore come la tenera freccia di Cupido innamorato.

Che bella la mia mamma quando mi chiedeva:

“Nenè, ti dispiace di darmi un sorso d’acqua fresca. Per piacere socchiudi un poco la finestra”.

Che diversi suoni hanno e stesse parole dette con toni diversi! Ancora oggi non sopporto quelle persone che non hanno modi gentili.

Qualsiasi piccola cosa mi chiedesse di fare mia madre, mi sembrava un lavoro massacrante. Facevo ogni cosa che mi chiedeva. Guai a non farla, ma procedevo con rabbia.

Quando conobbi la mamma del mio ragazzo fui felice proprio per aver conosciuto una persona diversa.

Ci incontrammo subito. Navigavamo sulla stessa linea d’onda.

All’epoca non mi resi conto che con quei modi gentili mi chiedeva di fare tante cose.

Lei sapeva bene in quali giorni della settimana andassi a casa sua e a che ora. Ebbene a quell’ora la trovavo sempre a stirare la biancheria.

 Mi soffermavo a salutarla in cucina, scambiavo qualche chiacchiera prima di appartarmi col mio ragazzo e lei subito:

“Scusa, vado a riporre queste lenzuola, mi da una schiacciatina a queste camicie?”

La mia mamma non stirava. Stendeva la biancheria in maniera perfetta e la piegava subito stirandola con le mani.

Vedi Nenè, passa con forza le mani sulla biancheria così non si dovrà stirare.

Mia suocera invece stirava tutto, anche gli strofinacci. Qualche altra volta mi chiedeva di aiutarla a smontare le tende o a lucidare le pentole di rame, la cosa che detestavo di più.

Quando mi resi conto di queste continue richieste, ne parlai con le amiche. Teresa, che era fidanzata da qualche tempo, mi rispose:

“Ma alle suocere bisogna fare i servizi. Io vado da lei due volte la settimana, abbiamo stabilito i giorni”.

Continuai così senza lamentarmi con me stessa. Apprezzai che non fossi stata obbligata ad andare da lei in giorni stabiliti e, soprattutto gradii quel suo modo garbato e le attenzioni che aveva per me.

Quando un giorno il figlio mi disse:

“A mia madre farebbe piacere se la chiamassi ‘mamma’” per un attimo rimasi in silenzio.

Pensavo di fare uno sgarbo alla mia mamma. Mi sembrava di sentire le sue parole:

“Ricordati che di mamma ce n’è una sola” e anche:

“Chi ti vuol bene più di una mamma ti inganna”.

Poi, quando lui con voce suadente:

“Li ha sempre desiderato una figlia, ti vuol bene. Che ti costa?”

All’inizio mi costò poi, presi l‘abitudine di chiamarla mamma, ma era come dire: Luisa, Lucia. Maria. Quella mamma, in cuor mio non era la mia mamma, quella che mi amava, ma non sapeva dimostrarlo con le smancerie.

La mia mamma, quella vera, aveva dovuto fare i conti con le calamità della vita.

Il suo tono era l’urlo della disperazione, della ribellione a tante ingiustizie e tanti dolori che aveva dovuto sopportare.

In primis l’abbandono di un marito senza scrupoli che l’aveva abbandonata con tre piccoli da sfamare e educare.

Ero sposata quando mia suocera venne ad abitare in casa mia.

Avevo un figlio di quasi tre anni.

Ero sposata quando venne a casa mia anche mia madre, avevo un figlio di otto anni e una bimbetta di cinque anni.

Che tragedia

Nel lontano 43 gli americani erano a Napoli e ci restarono per tanto tempo.

Io non li ho mai visti girare per le strade di Napoli, ma ne vidi solo uno negli anni ’60.

Quanto tempo sono rimasti nella nostra città non lo so, non ero ancora nata. Non ho voluto documentarmi come faccio abitualmente, voglio ricordare ciò che mi raccontava mia madre e ciò che ho vissuto in prima persona.

Conclusa la guerra, è certo che rimasero da noi.

Mia madre raccontava, a noi bambine del quartiere che erano belli, forti, muscolosi e distribuivano chewingum e cioccolata in quantità.  Erano simpatici, mi raccontava, ricordo ancora le sue parole:

“Bevevano molta birra, ma la reggevano bene. La sera barcollavano con la bottiglia in mano”.

Poi, mi parlava di un gruppetto di americani che andava a mangiare a casa sua. Anche in quell’occasione, la mia mamma si era adoperata a sbarcare il lunario inventando un lavoro nuovo.

“Polpetta, purpetta…cucina tu mamma “ e lei fra polpette, patatine fritte e pasta e fagioli si barcamenava a cucinare per quei giovani sodati che, poverini,  come diceva lei, erano ancora lontani dalle loro case.

Si avvertiva nella voce della mamma che si dispiaceva per questi giovani abbandonati a se stessi e si sentiva orgogliosa di provvedere lei affinché si nutrissero con pietanze saporite. E lei, di sicuro ce la metteva tutta, come se fossero i suoi figli e poi…la facevano guadagnare, diciamo la verità.

 La mamma mi raccontava anche che quando notava che stavano esagerando con il bere, faceva finta che non c’era più birra né vino.

“Basta Jhonn basta, finisch, finisch.

Per mamma e papà erano tutti Jhonn e le uniche parole che conoscevano erano finisch e bay bay

La gente che viveva nei bassi viveva così. Cucinava per loro, offriva a questi palestrati d’oltre oceano un angolo della casa riparato da sguardi indiscreti quando si presentavano con qualche donnina o lucciola recapitata chi sa dove.

Mia madre non offriva quest’ultimo genere di servizio. Non aveva uno spazio chiuso, non voleva problemi e soprattutto si vergognava di offrire questa possibilità anche se riteneva che avere un rapporto con una donna fosse un fatto naturale, ma non in casa sua.

Dall’inizio degli anni ’50 e per tutto il decennio, progressivamente i soldatini ritornarono in patria. Gli alleati diminuirono e mia madre non aveva più a chi cucinare.

 I famelici clienti erano tornati in America dalle loro fidanzate, dalle mamme e dalle mogli a mangiare panini con wurstel o hamburger insaporiti con mostarda, ketchup e maionese.

Tuttavia, ne restò ancora una bella parte. Una parte ben integrata e quasi stabile alle dirette dipendenze della Nato di Bagnoli.

All’epoca io ero nata e così anche i miei fratelli. Mio padre non c’era più. Io vivevo in quella stessa casa con la mia mamma, Giovanni e Gabriellino erano in collegio per ovvi motivi. 

Forse è sbagliato dire che vivevo sola con la mia mamma, in realtà a casa mia dormivano delle signorine, ma io difficilmente le vedevo.

Le situazioni strane si capiscono da grandi. Si comprendono e diventano chiare allorché da adulti si formulano domande ai genitori che, finalmente rendono tutto più chiaro.

Non ricordo quante signorine, donnine o lucciole, dormissero a casa mia, avanti agli occhi ho l’immagine di tre o quattro persone, ma ricordo vivamente, come se le vedessi avanti a me in questo momento Giulia e Lucia.

Com’erano belle!

Giulia era una bella mora prosperosa dai capelli corti. Una bellezza selvaggia, prorompente.

Indossava, come sua abitudine, gonne larghe nelle quali infilava i bordi di striminzite camicine merlettate che facevano intravedere un seno accattivante. I pronunciati fianchi erano messi in evidenza da una cintura alta che stringeva fino a farle mancare il respiro. Gli enormi orecchini, il rosso fuoco alle labbra e alle unghie, i tacchi a spillo, completavano un volto e un corpo volutamente impreziosito per uno scopo preciso. Giulia, mi appariva completamente diversa quando ebbi modo di vederla, nei rari momenti che non si travestiva per andare al lavoro.

Ora che ricordo meglio, Giulia la domenica mattina era a casa. Si dedicava al manicure, pedicure e alle sue faccende personali. Giocava anche con me, cosa che alla mamma non dispiaceva. Strano!

Comunque, la cosa durava poco e capitò almeno così ricordo, poche volte. 

Di certo era domenica poiché c’era anche la mamma e, lei, a fine di settimana, non lavorava presso lo studio del medico.

La domenica Lucia non c’era. Andava via di buon mattino e talvolta non rientrava.

Ricollegando le immagini impresse nella memoria e le spiegazioni della mamma, so di sicuro che Giulia proveniva da un piccolo paese della Calabria mentre Lucia da un paesino nelle vicinanze di Caserta.

La cosa importante da sapere è che la bella morettina dai capelli corti e il foularino stretto in gola, dal momento in cui venne a Napoli per lavorare non fece mai più ritorno a casa tant’è che un famoso giorno, anzi una domenica, la vidi traslocare con le poche cose che aveva.

“Sono proprio contenta che hai trovato una bella sistemazione, te lo meriti proprio” le disse la mamma mentre andava via.

Da quel giorno Giulia andò ad abitare in un grazioso appartamentino a pochi metri distante da noi.

Là sicuramente stava meglio.

Aveva fatto affari: poteva permettersi un fitto, poteva ospitare clienti e non era più costretta a stare per strada.   Inoltre, poteva dormire quando e quanto poteva.

Non era più obbligata a rientrare in casa dopo che io ero uscita per andare a scuola e dormire fino a quando terminava l’orario scolastico.

Doveva rispettare i patti: avrebbe dormito da noi sul lettino affiancato alla parete e avrebbe messo le sue cose nella scatola sotto il letto. 

Solo col tempo poté fare qualche trasgressione, quando io capii chi fossero quelle signorine che comparivano e scomparivano all’improvviso e non venivano mai a dormire la notte. 

Capii un poco di più quando, nel quartiere chi ospitava queste povere sfortunate costrette a fare questo lavoro e a mandare i soldi a casa ne parlava apertamente. Giulia, per alcun aspetto, era stata fortunata, il padre l’aveva cacciata da casa e lei con i suoi soldi, guadagnati col suo corpo, come sentii una volta dire da lei stessa, si sentiva libera e felice.

Non perché un americano si fosse invaghito di lei e forse l’avrebbe sposata e portata in America, come molte di loro sognavano, ma perché era bella e ricercata anche da tutti i maschietti italiani del quartiere e perché poteva vivere in una grande città con tutti i vantaggi che offriva.

Spesso, qualcuno veniva a cercarla a casa da noi. 

La mamma forniva le indicazioni suggerite dalla cara Giulia che mi riempiva sempre di regali.

Lucia era diversa da Giulia.

Innanzitutto, era bionda e aveva i capelli lunghi fino alle spalle.

La sua bellezza era dolce, delicata. Sembrava una creatura spaurita che si destreggiava fra i mille ostacoli che incontrava nella grande città. Pensando a lei mi viene in mente la favola del Topo di città e del topo di campagna di Esopo e soprattutto a quel lupo famelico del Perrault e perché no del lupo della briosa canzone di Lucio Dalla dal quale bisogna stare attenti.

Non a caso il cantautore ripetutamente sostiene ‘Attenti al lupo’. Attenti a questi lupi sempre in agguato e attenti ad accalappiare i più semplici, i più sprovveduti, i sognatori.

Il lupo, anzi i lupi in questo caso, erano gli americani e fu l’americano innamorato che portò la bella Lucia oltre l’oceano, nella sua terra.

Ero felice per lei, ma nello stesso tempo una tristezza infinita mi assalì: non sarei andata più con lei al suo paesino, dove vivevano i suoi genitori, né sarei andata con lei sulla bici lungo un sentiero dove, in una casetta di campagna una signora di mezza età, metteva fra le sue braccia un bimbetto recalcitrante che pian piano si tranquillizzava e non voleva staccarsi più da lei.

Andavamo via, ricordo, senza parlare poi, faceva un profondo respiro e cominciava a cantare a voce sempre più alta “Ma dove vai bellezza in bicicletta”. 

Lungo il percorso del rientro il volto finalmente s’illuminava completamente quando incrociava il suo vecchio innamorato.

Poi, nuovamente una lacrima scivolava sul pallido volto dopo averlo salutato con apparente allegria.  Rientrata in casa gioiva nell’apparecchiare la tavola con la sua mamma o andare a rinchiudere le galline nel pollaio.

Ero felice davvero di stare con lei che ridiventava bambina ed io mi sentivo grande e importante quando mi faceva promettere di non dire ai genitori dove eravamo andate.

Com’era diversa Lucia in quei momenti! Il sorriso ancora più dolce e quegli occhi languidi su quel viso acqua e sapone, le restituivano un candore naturale, sorprendente.   Bastava poco per allontanare da lei tristezze e malinconie.

Almeno apparentemente era così.

Rividi Lucia anni dopo quando ritornò col suo bell’americano, in missione per qualche mese a Napoli, qualche anno più tardi.  La bella bionda dall’aspetto americanizzato, mi venne a prendere a casa e mi portò a dormire da lei.

Quella notte non riuscii a dormire. Non potevo.

Di buon mattino, mi svegliò. Era pallida, emanava uno strano odore.  Mi fece vestire in fretta e silenziosamente aprì la porta e mi disse di ritornare a casa.

Non era più la mia Lucia, la Lucia dagli occhi luminosi e dal sorriso rassicurante. Era Lucy, la donna che indossava jeans e scarpette da ginnastica, si ubriacava e litigava violentemente col mastino americano che gridava.

Gridò davvero forte quella lunga e rumorosa notte.

 Mi avviai verso casa, dapprima di corsa, come se volessi allontanarmi in fretta da una donna che non conoscevo, da una situazione forse pericolosa, ma certamente inquietante.  

Avevo nelle orecchie ancora il rumore delle bottiglie lanciate a terra, i pianti disperati di lei, le imprecazioni, i rumori striduli di oggetti spostati, chiusura di porte, calci, grida.

Correvo, davo a quei rumori immagini. Correvo. Sudavo. Il cuore mi batteva in gola. I fotogrammi finirono.

La rabbia e la paura pian piano sfumarono. 

Avevo ormai la sensazione di aver lasciato, lungo il percorso, tutto ciò che la mia mente aveva elaborato. 

Finalmente quieta, avanzai il passo.

Ero affannata e senza più nessuna forza quando cominciai a procedere con lentezza. Respirai profondamente. 

Rincasai apparentemente tranquilla.

Non raccontai niente alla mamma: volevo che pensasse che la sfortunata creatura, verso la quale col tempo nutrì e manifestò affetto, stesse vivendo il sogno americano.

Quel sogno che solo poche, fra le tante che conosceva, era stata capace di realizzare.

Perché deluderla! 

Fino a questo momento non mi ero resa conto che la montagna in se stessa contiene un valore.

Ogni volta che ho affrontato il discorso con i miei alunni, dal punto di vista geografico, ho considerato i confini, i valichi, l’altezza in base ai quali ho fatto considerare ai miei allievi la diversa e preziosa flora e fauna, per non parlare del clima e le conseguenze che ha sulla natura.

Già il clima, il freddo, il gelo.

Proprio ieri ho visto alla tv, ora che ci penso, degli alpini, il più antico Corpo di Fanteria della montagna attivo nel mondo creato per proteggere i nostri confini montani.

Non avevo mai considerato la montagna dal punto di vista storico. 

Nella mia mente, la montagna era semplicemente un ammasso di roccia gigantesca che ostacola il passaggio dall’altra parte.

 Le catene montuose erano barriere che non permettono ai mezzi di comunicazione e, in particolare alla rete ferroviaria, di interferire col territorio opposto.

Mi sono detta tante volte che il rimedio si può sempre trovare, i valichi ce lo hanno dimostrato.

Tuttavia, quando debbo viaggiare per andare da ovest ad est della nostra penisola, mi viene un’angoscia indescrivibile: due o addirittura tre cambi a volte non bastano!

A parte queste considerazioni prettamente personali, determinate dal fatto che mi piace viaggiare, la montagna effettivamente ha un valore, quello del patriottismo, del sacrificio, della sofferenza dei soldati regolari appartenenti alle categorie speciali e dei volontari e partigiani che hanno lottato per noi.

Chi sa perché nelle scuole non si affrontano le discipline da un’altra prospettiva, mi chiedo.

I bambini conoscono il mistero della montagna perché leggono fiabe in cui ci abitano i maghi, le streghe e, i più grandicelli o i più colti ne subiscono il fascino attraverso la letteratura.

Quanti misteri, che fascino nascondono le loro valli! Quanti pastori si sono rifugiati? Quante persone si sono nascoste per sottrarsi dalla giustizia’? Quanti amanti hanno goduto la loro passione, la loro follia.

Così parlando mi viene in mente Angelica e le belle parole incise nella grotta.

Così dicendo, riaffiora alla mia mente Ermione, il monte Tabor e via via ogni montagna, ogni valle, ogni frammento dalle discipline da me insegnate riaffiorano veloci avanti ai miei occhi.   

Basta ora! Non sono più a scuola, voglio parlare delle mie montagne, quelle che vedo da casa mia e quella che vedo dall’abitazione delle mie vacanze estive.

Come sono belli i miei monti!

Sono proprio loro che hanno ispirato i miei racconti, che mi hanno permesso di tornare indietro nel tempo a rivivere i miei ricordi più teneri, le promesse d’amore, le speranze, i desideri!

Dal mio balcone del sesto piano, a dire il vero, non vedo proprio una montagna, c’è una collina, la collina dei Camaldoli.

Quando le mie amiche mi vengono a trovare, non ce n’è una che non manchi di dire:

“Ma questa montagna non ti fa paura?”

“E perché dovrebbe farmi paura?” rispondo io, forse con tono indispettito.

Secondo loro, la montagna potrebbe franare.

Franare?”

Se volessi pensare a queste sciocchezze non dovremmo abitare in nessun luogo. Dove li mettiamo gli aerei che si schiantano, i nubifragi, i terremoti, la Solfatara e il Vesuvio?

Bah, sciocchezze e solo sciocchezze senza senso.

Eppure, la mia montagna, per piacere chiamiamola così perché ai miei occhi   è gigantesca ed è proprio bella, ha un fascino particolare.

In alto si dovrebbe scorgere l’Eremo dei frati che invitano a pensare alla loro solitudine e al loro contatto col cielo. 

Tutt’intorno già a gennaio si vedono macchie gialle di mimose in fiore che sprigionano un profumo intenso che scivola dentro il cuore.

Andando più giù verso l’unica grande villa alla cui destra sorge un casale antico, c’è un aranceto che sfoggia fiori bianchi che si alternano alle sferiche arance, secondo la stagione, conferendo un’aria di solennità sacrale: i profumi e la speranza della primavera, la genuina e delicata festa del Natale con quegli alberi mediterranei colmi di sfere monocolore.

Sembrano abeti nostrani, foggiati solo per noi, per noi che abbiamo nel cuore, nella mente e nell’olfatto la nostra terra che non ci delude mai. 

A distogliere lo sguardo da questa meraviglia della natura ci sono arbusti bruciati dal sole, orme vecchie del passato rinsecchiti dal tempo o da quei piromani malvagi che di tanto in tanto provano a creare una combustione.

Che fascino una notte! Mi vergogno a dirlo, ma è così. Sentivo l’andirivieni degli elicotteri che catapultavano acqua sulla nostra montagna.

Uno scenario unico, ma non raro, ma quello fu proprio bello!

Le lingue di fuoco salivano verso l’alto si incrociavano, si piegavano vogliose si stendersi l’una nelle braccia dell’altra.

Il crepitio delle foglie sembrava un sussurro d’amore. Il cielo plumbeo, triste e sordo sbirciava indifeso.

Le monachine nere sul mio balcone erano teneri cuori frantumati.

Cuori spezzati come il mio che   osservava con occhi lucidi quelle fiamme infuocate che sembravano dare un addio solenne e trionfale a chi proprio qualche giorno prima mi aveva lasciata per sempre.

Anche la montagna che vedo dalla mia casetta estiva è molto bella.

Sono stata fortunata ad avere queste scenografie così sublimi che mi tengono compagnia coi miei pensieri talvolta stravaganti.

Questa che vedo in lontananza dal mio balconcino è una vera e propria montagna è il Monte Bulgheria situato nella parte più mediterranea del Cilento, terra aspra e selvaggia dove gli oliveti dal fusto secolare salutano i passanti mentre procedono  per i tortuosi tornati  con il sole negli occhi.  

È davvero difficile per me oltrepassare quel fascio luminoso che abbaglia la vista fino a tarda sera.

Il mio paesino si trova a circa 500 metri dal mare, sorge u una collina dove domina la Santa del paese che, al tocco frequente della campana, cadenzata nel tempo, sembra annunciare ai nuovi arrivati il benvenuto e sembra scandire ai residenti il momento del rientro a casa.

Talvolta, lungo il percorso si incontra qualche isolato asinello e un gruppetto di capre e pecore che rientrano anch’esse nel loro ovile.

Di giorno in paese c’è poca gente. I villeggianti sono giù nel paesino marino, han lasciato gli stazzi e corso verso il mare come recita la poesia di dannunziana memoria.

A me non piace molto andare al mare. La mattina, sola o con le amiche sorseggio il mio caffè e mangio i miei soliti due frollini. Guardo il ciliegio di fronte a me e volgo lo sguardo verso quell’alto monte che supera di poco i 1200 metri. Alto, maestoso, ricco di vegetazione sui fianchi sembra dividere il mondo a metà.

Ci sono andata una volta sul Monte Bulgheria. Sì, sono andata per davvero.

Erano i bei tempi felici.

Mio marito, eterno ragazzino sempre pronto ad affrontare imprese audaci, si fece convincere da un gruppo di adolescenti a fare la grande impresa:

“Ci accompagni sulla montagna? Dai andiamo”.

Vedevano in lui uno spirito giovanile e bizzarro, il napoletano che trascorre il suo tempo coi figli piuttosto che giocare a carte al bar del paese con una birra in mano.

Ricordo che andai anche io.

I ragazzi erano una decina, si erano passati la voce.

Con noi venne anche mio figlio, che aveva allora dieci anni e il cuginetto col quale stava tanto bene insieme. Naturalmente portammo anche Laika, l’affettuoso cagnolone, che avvertì qualcosa di speciale mentre preparavamo gli zainetti con la nostra merenda e mentre le due piccole, l’altra mia figlia e la cuginetta piangevano perché volevano venire anche loro.

Ho ancora le foto, che bella giornata!

Il più grande dei ragazzi del gruppo, conosceva i sentieri dai quali procedere. Avremmo attraversato piccoli passi e un bosco.

Avremmo trovato anche una fonte.

Non sapevo che la montagna fosse così complessa. Avevo pensato di incontrare volpi e scansare serpenti, ma non potevo mai immaginare di vedere tanto diverso fogliame e annusare tanti profumi voluttuosi e penetranti.

Mentre procedevo, a volte con fatica, per sormontare una piccola altura, il nostro pastore tedesco, che aveva oltrepassato l’ostacolo prima di noi, ci aspettava e, una volta giunti sulla sommità abbaiava felice.

Mio figlio e il cuginetto erano felici più di tutti. Erano stati privilegiati a venire con noi: erano i più piccoli del gruppo.

Giunti alla selva sostammo per mangiare la nostra merenda, cantare e giocare prima di valicare il monte vero e proprio.

Da tempo non mi sentivo gioiosa, le preoccupazioni e gli impegni familiari non mi   permettevano di sentirmi così libera. Sì, la montagna mi dava la possibilità di sognare, di pensare.

Era un pensare diverso, un pensare magico!

Avvertivo di stare nella scena di un poema bucolico, immaginavo di essere Pampinea circondata dai novellatori boccacceschi mentre raccontano la loro storia.

Anche i nostri ragazzi raccontavano. Raccontavano le manchevolezze dei loro padri, la pesantezza degli studi, i pettegolezzi del paese e le tragedie diventate leggenda.

“Vedete quelle due croci che stanno là” ci disse il promotore dell’escursione, “Là Pascuzzo ha acciso a mugliera

“M’ha cuntato a nonna che s’era spusato da tanto tiempo e nun aveva figlie” aggiunse un altro.

“Sì, nun aveva figlie pecchè nun l’aveva mai tuccata, ha ditto mamma.”

“S’è miso scuorne, ha acciso primma a essa e po’ a isso.”

Ecco raccontavano le storie in gruppo, una frase ognuno, frantumando la storia e le dicerie in parti uguali forse, per essere protagonisti, per sentirsi partecipi di un avvenimento o più semplicemente perché in quell’ambiente di vita dove esistono valori diversi non c’è né protagonismo né prevaricazione.

È un ambiente di vita dove seppure non sussiste la capacità cooperativa esiste la coesione del gruppo basato sulle emozioni e non sugli interessi.

Eccomi distesa su quello che dovrebbe essere il bel prato della primavera del Monet, mi sento come Camilla, moglie e modella dell’artista. Riemergono alla memoria i dolci versi della Deledda:

Che magia la montagna, accipicchia non ci avevo mai pensato. Che fascino, che mistero!

Basta!

Basta vagare con la mente e ripercorrere scenari culturali che si affacciano alla mente senza volerlo, che spuntano così come quei funghetti sparsi qua e là nella selva, sotto quei vecchi castagni.

Non toccateli, potrebbero essere velenosi” grido mentre procedo per l’ultima avventura.

Ora i sentieri non esistono più, sono alle nostre spalle mentre guardiamo in alto verso la sommità del monte. Io ho bisogno di aiuto, i ragazzi dalle gambe agili e lunghe sono davanti a me. Mio marito cerca di aiutarmi come può.

“Resta giù, andiamo noi, hai già hai fatto abbastanza.”

Io, restare giù? Io che non mi sono mai arresa! Debbo mettercela tutta.

“Vedrai che ce la farai” dico a me stesa mentre lo guardo Aggrottando la fronte.

Mio marito sa che sono tenace e non mi arrendo mai, ma ci ha provato.

Ci prova sempre!

“CE L’HO FATTA, CE L’HO FATTA!”

Eccomi, sono sulla parte più alta del Monte Bulgheria. La cima non è a punta come immaginavo anzi, come appare da lontano dal mio balcone. È piatta, larga, come un sentiero. Non si ha paura di procedere, è veramente grande quella cima, dove ho sentito il bisogno di sdraiarmi e di alzare le mani verso il cielo.

Mi sono sentita libera, avvolta nell’immensità, mi sono illuminata anch’io in quel profondo silenzio degli spazi infiniti!

Ho toccato il cielo tendendo le mani. Sopra di me c’era solo il limpido azzurro dove la sera scintillano imponenti e luminose le stelle dei miei desideri.

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