LA NOTTE DI PLENILUNIO di Adriana Colombo

Dietro quella porta socchiusa avvertivo fruscii, gemiti, risate sommesse, scricchiolii. Feci per scostare un battente quando…

Ma forse è meglio che inizi dal principio, da quando molti anni fa misi piede per la prima volta in quella casa.

Era una giornata di maggio. Una di quelle giornate perfette, in cui il cielo è di un azzurro intenso, in cui le nuvole sono soffici e quasi trasparenti e sfumano in lontananza confondendosi con l’orizzonte. Un vento leggero portava il profumo delle zagare e il ronzio sommesso delle api che si posavano leggere fra le corolle dei fiori appena dischiusi.

 Ero assonnata, stanca, spaventata, ma quel profumo e quel cielo azzurro si trasformarono in balsamo per il mio corpo.

Appena la carrozza si fermò davanti all’enorme portone di legno spalancato, fra l’abbaiare dei cani che si precipitavano incontro al padrone e la ghiaia che schizzava fra le alte ruote chiodate, una donna si precipitò verso di me, che stavo impalata sull’ultimo gradino, mi prese per mano e con fare brusco e sbrigativo mi fece attraversare l’ampia sala affrescata, spingendomi attraverso una porticina nell’ala della servitù.

Una finestra alta e stretta a stento illuminava una scala ripida che sembrava perdersi nelle viscere della terra.

Percorremmo un lungo e tortuoso corridoio e finalmente varcammo una porta sgangherata che cigolò sinistra. A causa del buio avevo perso più di una volta l’equilibrio ed ero inciampata nell’abito, che, troppo ampio per la mia esile figura di bambina, strisciava per terra. Ogni volta la donna mi strattonava, imprecando, e la stretta della sua mano adunca era talmente ferma che le sue unghie mi penetravano nella carne.

“Ma chi ha portato, questa volta, il duca? Un mucchietto di ossa.”

Ovviamente non capivo le sue parole. Erano in una lingua straniera, ma il suo tono era talmente adirato che capii che era scontenta del mio arrivo.
Con un gesto mi fece cenno di svestirmi. A occhi bassi obbedii tremando. Quell’antro buio era umido e freddo.

Accese una candela e alla luce tremolante scrutò attentamente il mio corpo e i miei lunghi capelli alla ricerca di qualche parassita o pidocchio. Non trovandone annuì soddisfatta e mi fece rivestire. Avrei voluto dirle che, appena avevo abbandonato la mia capanna ed ero stata trascinata ricalcitrante, con il volto rigato di lacrime e il cuore che sembrava esplodermi nel petto, in una locanda, la proprietaria mi aveva immerso in una tinozza di acqua bollente e mi aveva strigliato, come se fossi un mulo, finché la mia pelle non era diventata rossa e i miei capelli non erano scesi in morbidi ricci setosi sulle spalle.

Questo rito si era ripetuto identico tutte le volte che arrivavamo stremati dal viaggio in un luogo di posta. La prima cosa che facevo, varcata la soglia della mia camera, era immergermi nell’acqua e lasciare che la stanchezza scivolasse via dal mio corpo pulito e profumato.

Non so quanto durò il viaggio. Non sapevo contare, figurarsi tenere a mente i giorni e le settimane. Certo fu interminabile e noioso, estremamente noioso. Non ricordavo fino a quel momento neppure un giorno della mia vita in cui avevo avuto la possibilità di stare seduta senza fare nulla.

Ma ora ero sdraiata in una carrozza, su un divanetto di velluto turchese, immobile di fronte all’uomo che mi aveva comprata per pochi ducati e che non mi parlò per giorni e giorni. Talvolta guardava fuori dal finestrino con aria annoiata, ma il più delle volte scriveva su un taccuino o disegnava con veloci tratti nervosi. Penso che prendesse appunti su di me e mi sembrò anche di vedere riprodotti sulla carta color avorio i miei occhi, le mie mani, forse anche i miei capelli.

Ero terrorizzata, ma non volevo darlo a vedere. Perché mi aveva comprata? Ma soprattutto perché mia madre mi aveva venduta?

Per la seconda domanda avevo una risposta. Mio padre, violento e sempre ubriaco, un giorno aveva raccolto quel po’ che possedevamo e si era allontanato dalla nostra capanna imprecando e bestemmiando, mentre mia madre con gli occhi neri per le botte della notte precedente lo guardava andare via con un uno sguardo sgomento e sconsolato.

Erano seguiti la carestia, un inverno gelido, un’estate torrida dominata da un sole cocente che aveva bruciato i raccolti, e dal tifo che si era portato via i miei fratelli maggiori. Così si era abbattuta su di noi la miseria più nera.

Ma perché proprio io? Ero piccola e mingherlina per la mia età. Il mio corpo ossuto era sgraziato. Solo i miei capelli di un rosso ramato, folti e ricci, mi donavano una parvenza di bellezza.

Invece Rita, la mia sorella maggiore era una vera meraviglia. Alta due spanne più di me, aveva un corpo armonioso, un ovale del viso perfetto, due enormi occhi neri come la pece e due labbra piene e sensuali.

Quando l’elegante carrozza dello straniero, impantanandosi e slittando, si fermò davanti alla nostra misera capanna, accorremmo tutti fuori spaventati e meravigliati.
Una mano guantata scostò la pesante tenda di raso e il volto di un uomo, a cui i servi si rivolgevano con l’appellativo di Duca, si sporse. Con un cenno il gentiluomo fece avvicinare alla carrozza mia madre, le rivolse alcune parole sottovoce nella nostra lingua e puntò un dito nella mia direzione.

Vidi mia madre sussultare, poi annuire e infine alzare la mano in cui caddero tintinnando delle monete. Un servitore mi si avvicinò, mi afferrò recalcitrante e mi issò sulla carrozza senza che io riuscissi a emettere neppure un lamento talmente ero terrorizzata.

Per quanto ancora bambina, sapevo che quello prima o poi sarebbe stato il mio destino: o diventare una sguattera o finire in una casa di tolleranza. Per me non ci sarebbe mai stata una dote e, di conseguenza, mai un matrimonio.

Nel buio della stanza gelida, in cui non arrivavano né luce né suoni, questa era la domanda che mi continuava a vorticare nel cervello.: sarei diventata un’umile serva o mi sarei trasformata in una donna di malaffare?

Passarono i giorni, lunghi e interminabili. Credevo che si fossero dimenticati di me. Solo ogni tanto le chiavi giravano rauche nella serratura, la porta si socchiudeva e intuivo che una ciotola, contenente una brodaglia nauseabonda, veniva abbandonata sul pavimento di terra battuta.

Quanto piansi in quei giorni! Anche se misera, mi mancava tutto della mia vita precedente: la voce burbera di mia madre, che passava il tempo a rimbrottarmi e impartirmi ordini, ma che ora il ricordo rendeva dolce come il miele e i litigi e le soperchierie dei miei fratelli, di cui sentivo, lì, prigioniera, l’assenza. Rimpiangevo la luce e il profumo di primavera che mi avevano accolto al mio arrivo. Quaggiù ogni cosa aveva perso i propri contorni: mi trovavo in un nero, buio inferno.

Non toccai per giorni la ciotola di cibo.

Volevo lasciarmi morire di fame, poi cedetti.

Dapprima il mio corpo fu torturato da crampi che non mi davano pace né di giorno, né di notte. Poi seguì un languore che mi rendeva impossibile distinguere il sonno dalla veglia, infine la mia mente incominciò a vacillare e a farmi vedere fantasmi e sentire voci inesistenti.

“Se continuerai così, finirai per morire!”

La voce era quella autoritaria del Duca, ma la lingua era quella della mia terra lontana.
La mia buia prigione era ora illuminata dalla luce tremolante di una fiaccola. Il bagliore improvviso mi ferì violentemente gli occhi, sbattei le palpebre e mi coprii con le mani tremanti il viso.

Sentii degli ordini impartiti in una lingua straniera, percepii la presa ferma di qualcuno che mi sollevava senza sforzo da terra e persi conoscenza.

Seppi poi che avevo lottato a lungo fra la vita e la morte, ma, quando ritornai nel mondo dei vivi, mi accorsi con stupore che ero sdraiata su di un letto a baldacchino, fra lenzuola di lino ricamato. La luce di un tiepido raggio di sole entrava fra le tende accostate creando un lungo cono luminoso in cui danzavano minuscoli granelli di polvere. Intorno a me delle domestiche si affannavano, chi a lavarmi il viso con dell’acqua che profumava di rose, chi a spazzolarmi i capelli, chi a massaggiarmi i piedi con una crema che aveva un intenso odore di canfora.

Mi parlavano con voce carezzevole, facendomi mille domande incomprensibili.

Le guardavo con gli occhi sbarrati e facevo cenno di non capire, di non conoscere quella lingua straniera. Ma tutto fu inutile e lacrime di frustrazione incominciarono a scendermi copiose sulle guance mentre gemevo disperata.

Stavo impazzendo: ne ero sicura.

Quando il pianto si trasformò in singhiozzi incontrollabili, vidi la porta spalancarsi e una donna, che aveva i lineamenti simili a quelli di mia madre, solo non distorti dalle rughe e dalla stanchezza, e una meravigliosa chioma rosso ramato raccolta in un’elaborata pettinatura, si precipitò nella camera, si avvicinò al mio letto e mi abbracciò stretta sussurrandomi parole di cui non capivo il significato.

 “Bambina, bambina mia” continuava a ripetere.

Non capii le parole, ma ne immaginai il contenuto.

Mi chiesi se fossi diventata pazza, se tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento fosse stato un brutto, terribile sogno; stabilii che non lo era, ma scelsi di adeguarmi alla volontà di chi mi circondava e che mi voleva quella che non ero.

Imparai quella lingua sconosciuta dagli accenti musicali e dolcissimi. E, contemporaneamente al linguaggio, appresi le belle maniere, la danza, le lettere e la pittura.

Io, che ero figlia di lavoratori della terra, non ebbi alcuna difficoltà nell’inserirmi nell’alta società.

Man mano che crescevo vedevo gli sguardi dei rampolli della nobiltà seguirmi con ammirazione e desiderio. Non ne ero stupita. L’enorme specchio del boudoir rifletteva l’immagine di una ragazza alta e snella, dai liquidi e languidi occhi neri, le labbra piene e sensuali e l’ovale perfetto incorniciato da una folta capigliatura rosso ramato che brillava ai caldi raggi del sole del sud.

Ero la copia identica della mia sorella perduta, ma sapevo anche che il mio fascino era accresciuto dai racconti sussurrati sulla mia vita passata.

Ancora bambina, una terribile malattia mi aveva costretta a letto e io avevo lottato a lungo e strenuamente fra la vita e la morte. Quando ero uscita dal coma avevo dimenticato ogni cosa, perfino la mia lingua. Mi esprimevo a stento con frasi disarticolate e suoni privi di senso. Sentii talmente tante volte questa versione riguardo alla mia malattia da domandarmi se non fosse vero che il coma aveva annullato ogni ricordo della mia vita precedente. Eppure, mi bastava fare un giro, all’insaputa della servitù, nei campi, dove i braccianti lavoravano e sudavano sotto il sole cocente, o passare accanto a una  scala che conduceva  ripida nei sotterranei del palazzo per rendermi conto che quello che stavo vivendo era un incomprensibile e inquietante inganno.

Quella che diceva di essere mia madre mi amò fino alla fine dei suoi giorni di un amore cieco e soffocante.

Eppure, quando dopo pochi anni venne a mancare, non riuscii a versare neppure una lacrima.

Il Duca, invece, mi guardava sempre da lontano con occhi inquisitori. La cosa passava inosservata. Era raro che un gentiluomo si prendesse cura della propria prole che veniva solitamente affidata alle cure di balie prima, di educatori poi.

Ma io sentivo, percepivo che era tentato di mettermi alla prova, di vedere fino a che punto ero sincera, se realmente la mia povera mente, debilitata dalla fame e dagli stenti, avesse dimenticato gli anni precedenti l’arrivo a palazzo.

Mi divertiva questo gioco del gatto col topo. Mi dimostravo mansueta, tutta presa dal mio ruolo di duchessina ben educata, che aveva vissuto sempre negli agi e nella ricchezza, e poi mi lasciavo andare ad un gesto rozzo, privo di grazia, che lo faceva sussultare e trasalire.

I suoi occhi allarmati mi seguivano sgomenti, ma io allora abbassavo le palpebre e atteggiavo le mie labbra ad un sorriso dolce e innocente.

L’otto di maggio di quell’anno avrei compiuto sedici anni. Il palazzo era in gran fermento. Tutta la servitù era impegnata nella preparazione della sontuosa festa che, il giorno dopo, avrebbe sancito il mio ingresso in società.

Avevo passato tutta la mattinata con il maestro di ballo. Nonostante il mio corpo fosse predisposto per la danza, Monsieur sembrava non essere mai soddisfatto. Non mi dava tregua. Al minuetto sostituiva la pavana, quindi si lasciava andare in una gavotta per poi dar luogo a una corrente briosa e movimentata.

“Mademoiselle, Mademoiselle, vi prego! Fate attenzione! Prima la passeggiata in coppia, poi il corteggiamento del cavaliere, infine il rifiuto della dama. Recommençons, s’il vous plaît!”

Ero esausta. Facendomi aria con il ventaglio di pizzo mi lasciai cadere su un divanetto di velluto, sostenendo che da lì non mi sarei più alzata.

Monsieur con un gesto sconsolato si allontanò dalla stanza, brontolando fra sé e sé che la serata sarebbe stata vero un disastro, ma che la colpa non era certo da attribuire a lui.

Rimasta sola, mi guardai intorno. Non c’era nessuno. Sentivo solo in lontananza il brusio dei domestici, i loro passi affrettati e il rumore dei pesanti mobili che venivano spostati da una stanza all’altra.

Fin dal mattino un’inquietudine senza nome si era impossessata della mia anima. La notte trascorsa era stata un susseguirsi di incubi terribili. Nel buio della notte sentivo il nitrito di cavalli al galoppo, il cigolio delle ruote di una carrozza; vedevo delle scale che scendevano nel buio profondo dei sotterranei di un castello diroccato e le mie mani che battevano e battevano contro una porta chiodata che infine  si spalancava inghiottendomi in un vuoto senza fine.

Avevo lanciato un urlo e mi ero svegliata con la fronte imperlata di sudore e un terribile senso di  angoscia.

Ora, nella stanza da ballo, mi guardai intorno: ero sola. Non capitava mai. La governante era una presenza costante al mio fianco. Con fare premuroso preveniva ogni mio bisogno, ma nei suoi occhi vedevo spesso brillare uno sguardo indagatore. Sembrava quasi che fosse stata messa lì per farmi da guardiano e riferire ogni mia parola e ogni mia mossa al Duca.

“Perché, perché sono finita qui?” mi chiedevo.

La Duchessa mi considerava la sua bambina. Di questo  ne ero certa. Ma lei era “ ammalata di nervi “ come avevo sentito dire dalla servitù. Ma perché il Duca continuava in quella farsa anche dopo la sua morte?

Avevo bisogno di sapere, anche a costo di essere cacciata da quella casa come un impostore, come d’altronde ero.

Scivolai silenziosa fuori dalla stanza. L’incubo della notte precedente mi ritornava vivido nella mente. Rivedevo le rovine, la porta chiodata… Ero certa che ciò che avevo vissuto in sogno non fosse solo una mia fantasia.

L’anno precedente durante una battuta di caccia ci eravamo inoltrati, mio padre ed io, in una radura. Aveva un aspetto desolato e sullo sfondo, prima che il Duca facesse fare al mio e al suo cavallo un brusco scarto e cambiasse direzione, intravidi le mura diroccate di una torre, nascosta parzialmente alla vista da dei rovi.

Fino a quel momento mi ero dimenticata di quelle pareti annerite, ma ora sapevo, senza ombra di dubbio, che erano quelle che avevo visto in sogno.

Nelle scuderie il Duca pretendeva che fosse sempre pronto per lui un cavallo sellato. Non ebbi difficoltà ad individuarlo, issarmi sulle staffe e partire velocissima al galoppo.

Sembrava che sia io che l’animale sapessimo perfettamente dove andare.

Dopo mezz’ora di un furioso galoppo tirai le briglie e scesi da cavallo. Nell’anno trascorso rovi ed erbacce avevano quasi completamente nascosto i resti del maniero distrutto da un incendio molti anni prima.

Girai intorno alla cinta alla ricerca di un varco. Sul lato sinistro la vegetazione era stata tagliata in modo tale da creare una galleria di verdi arbusti. L’erba era calpestata in più punti, dimostrazione che qualcuno andava avanti e indietro passando da quel sentiero.

La casa non era quindi abbandonata.

Non avevo paura, avevo solo la sensazione che fra quelle rovine fosse da ricercarsi la spiegazione di quello che era avvenuto molti anni prima.

Avanzai.

Il mio abito di mussola si impigliò più volte fra le spine. Mi liberai con gesti bruschi, incurante degli ampi squarci che si aprivano nella stoffa leggera. Salii degli scalini ripidi e mi trovavi davanti a una porta di legno chiodato.

Era molto ammalorata e priva di una maniglia. Spinsi il battente che cedette immediatamente. Non era chiusa, era semplicemente accostata.

Sbattei le palpebre per cercare di abituarmi al buio e avanzai. Il silenzio era rotto solo da un ronzio, come di api che si agitano intorno a un favo che cola miele.

Cauta mi avvicinai a una finestrella che avevo intravisto nella penombra. Cigolando si mosse sui cardini quando scostai le imposte.

La luce che entrava ora a fiotti illuminò una stanza vuota in cui, realmente, ronzavano delle api.

Non potei trattenere il mio disappunto. Mi ero ingannata. Il sogno era e restava solo frutto della mia immaginazione. Mi girai per ritornare sui miei passi. Si era fatto tardi. Fra poco il sole sarebbe tramontato e la mia mancanza a palazzo sarebbe stata notata dalla governante e dal resto della servitù.

Mentre stavo tornando sui miei passi udii un gemito soffocato e un oggetto di metallo cadde a terra con un tonfo.

Con il cuore in gola mi immobilizzai sulla soglia.

Poi la curiosità ebbe la meglio sulla paura.

Ritornai verso il fondo della stanza. Con le mani incerte percorsi, sfiorandola, la parete scrostata. Mi fermai quando le mie dita trovarono una fessura. Con il palmo premetti con forza sul muro. L’intonaco cedette sfarinandosi e la fessura si allargò in uno stretto passaggio.

Ciò che vidi al di là della parete mi lasciò senza fiato.

Mi sembrava di essere a Palazzo, di varcare la soglia della mia stanza, quella stanza che avevo imparato ad amare e dove oramai mi sentivo in pace e protetta.

Alla luce di decine di candele la tappezzeria di raso brillava e i petali delle rose che la decoravano si schiudevano timidi e delicati.

Nella penombra luccicavano le decorazioni dorate dei mobili laccati in bianco e, sotto il baldacchino, il grande letto sembrava volersi impossessarsi di ogni centimetro di spazio vuoto.

Un odore intenso di tuberose aleggiava nell’aria, talmente penetrante da dare il capogiro. Più e più volte la governante aveva cercato di riempire i vasi di fine porcellana della mia camera da letto e del mio boudoir con questi fiori di un pallido color argenteo. Io li prelevavo dal vaso, ne facevo un mazzo, aprivo la finestra e li lanciavo al di là del parapetto guardandoli volteggiare finché non atterravano sulla ghiaia del giardino, dove giacevano tristemente sfatti.

Non so cosa mi prendesse in quei momenti. Sentivo solo serpeggiarmi nel petto un sentimento di angoscia e un bisogno impellente di disfarmi in ogni modo di quei fiori bianchi e profumati.

La governante mi guardava stupita, poi usciva dalla stanza scrollando le spalle e mormorando a voce talmente bassa da essere udita a stento:

“Eppure, una volta erano i tuoi preferiti…”.

Ora la stanza del castello ne era letteralmente stracolma e i petali si confondevano, bianchi, con il candore del lenzuolo ricamato.

Mi avvicinai a piccoli passi al letto. Una figura minuscola, talmente esile da sollevare a stento la coperta,  giaceva immobile. Il volto era cereo, le labbra esangui. L’unica nota di colore era la chioma rosso tiziano che si spandeva sul cuscino come un fiume di sangue.

Mi arrestai, mentre un grido strozzato mi sfuggiva dalle labbra. Quella…quella bambina …era identica alla bambina che io ero stata.

Mi rividi, piccolo essere ossuto e spaventato, salire sulla carrozza del Duca; ricordai, con un brivido, il gelo che avevo provato nelle segrete del palazzo; riudii i singhiozzi di colei che diceva di essere mia madre e finalmente capii.

Io ero la sosia, io ero la sostituta. Le orecchie mi ronzavano, un capogiro mi fece vacillare e sarei caduta a terra svenuta se in quel momento non avessi sentito il suono secco di alcuni passi e l’eco di voci che si avvicinavano.

Ritornata vigile, con lo sguardo percorsi la stanza alla ricerca di un nascondiglio. Le finestre erano oscurate da pesanti cortine che non facevano passare il più piccolo raggio di sole. Le scostai e feci appena in tempo a rannicchiarmici dietro, quando la porta si spalancò e due o più persone entrarono facendo cigolare il pavimento di legno intarsiato.

“È arrivato il momento”.

La voce era bassa e tranquilla, ma ugualmente sentii un brivido percorrermi la spina dorsale.

“È giunto il momento dello scambio”.

L’interlocutore non parlò, immaginai che avesse fatto solo un cenno d’assenso.
“Il Signore degli Inferi non può venire meno alla sua promessa.”

Sempre la stessa voce, ma ora era cupa, inquietante.

“Ha avuto ciò che avevamo pattuito. In questi ultimi otto anni le vergini più belle del circondario sono state sacrificate in suo onore sull’altare di pietra in mezzo al bosco di Crevacuore, e ora è giunto il momento tanto atteso. Ora la ragazza più bella della Contea, colei che viene da lontano, colei che nel plenilunio di primavera compirà sedici anni, i cui capelli rosso fuoco brillano più del sole che si incendia al tramonto, sarà sua”.

“Ed io potrò riabbracciare la mia piccola…”.

La voce tremante del Duca risuonò nella stanza silenziosa.

“Finalmente cesseranno sussurri, risate sommesse, scricchiolii. Finalmente la mia bambina ed io saremo in pace”.

Mi misi la mano tremante davanti alla bocca per smorzare il grido strozzato che era pronto a sfuggirmi dalle labbra. Mi rattrappii contro il vetro e pregai sommessamente Dio. Io ero la fanciulla da sacrificare al plenilunio di primavera. Io ero colei che era giunta da lontano, e i cui capelli…

Ebbi la sensazione che non si fossero ancora accorti della mia fuga da Palazzo. Avevo avuto l’accortezza di nascondere il cavallo in un boschetto a un centinaio di metri dalla portone del castello semidiroccato. Sarebbe stata la mia via di salvezza.

“Io attenderò qui”.

La voce femminile aveva qualcosa di familiare.

“Voglio essere io a rivestire la mia piccina con i più ricchi e lussuosi abiti conservati al castello. Io l’ho stretta per prima fra le braccia quando è nata. Sono stata io ad allattarla e a sorreggerla, quando muoveva i primi passi, e a raccontarle le fiabe. Io ero vicino al suo letto, quando, bollente per la febbre tifoidea, straparlava. È toccato a me lavare il suo corpo prima dell’imbalsamazione. Io ho girato in tutta la Contea per cercare le vergini da sacrificare a Belzebù.”

Mentre la donna raccontava rividi, offuscata dal passare del tempo, un’immagine lontana. Sentii la mia mano stretta fra mani malevoli, le unghie di chi mi trascinava, che si conficcavano nella mia carne; la porta che si socchiudeva e la scodella dall’odore nauseabondo che mi veniva posta accanto. E poi, quando ormai ero moribonda, avvelenata, non so da chi  o da cosa, ero stata portata all’insaputa di tutti in quella stanza dove avevo preso il posto della Duchessina morta. Tutti, compresa la Duchessa, che era “malata di nervi”, dovevano credere che la piccola fosse riuscita a sopravvivere al tifo. Io, invece, ero sopravvissuta per essere sacrificata al Signore degli Inferi.

Mentre la vecchia parlava udii i passi dei due uomini allontanarsi.

 Non avevo molto tempo a disposizione. A Palazzo dovevano ormai essersi accorti della mia fuga e l’anziana balia era rimasta per preparare il corpo che di lì a poco sarebbe rinato.

Improvvisamente un’idea mi si affacciò alla mente.

Era ardita, ma era l’unica possibilità che mi restava. Cercai con le mani tremanti le forcine che raccoglievano i miei capelli in un’acconciatura elaborata. Le tolsi. La chioma lunga e inanellata si sparse sulle mie spalle come una colata di lava. Slacciai il corsetto e la gonna, e li sfilai facendoli scivolare a terra. La biancheria di bisso ricamato, bianca sulla pelle candida, al lume di candela, doveva rendermi simile ad un essere venuto dall’al di là. Tremando attesi.

La vecchia si affaccendava intorno al corpo della defunta a cui bisbigliava parole dolci e amorevoli.

A un certo punti sentii lo scricchiolio della poltrona su cui si era lasciata cadere e quasi subito un ronfare sommesso invase la stanza.

Era giunto il momento.

A passi cauti, perché il legno non cigolasse, arrivai davanti alla figura canuta abbandonata sulla poltrona.

“Balia! Balia!” la mia voce riecheggiò nella camera, imperiosa e dolce nello stesso tempo.

La vecchia sobbalzò e mi guardò con gli occhi sgranati. Allo stupore si alternò lo smarrimento e infine il terrore misto a una gioia incontrollabile. Le sue labbra si socchiusero in un sorriso mentre balbettava:

“Piccola mia, sei tornata finalmente…” poi i suoi occhi si riversarono all’indietro e con un grido strozzato si accasciò sulla poltrona.

“Oddio” pensai. “Che cosa ho fatto? Volevo solo approfittare della sua sorpresa per scappare. Invece è morta.”

Al rimorso si sostituì subito il sollievo. Ero libera.

Inoltre, a ben pensarci, non provavo alcun senso di colpa. Aveva permesso che mi strappassero alla mia famiglia, mi aveva avvelenata, aveva partecipato a quell’orribile e incredibile patto con il diavolo, ed era d’accordo che io venissi sacrificata in una sera di plenilunio, sperando in qualcosa che non sarebbe mai potuta accadere: la resurrezione di un esserino morto anni e anni fa.

Mi girai, attraversai la fessura nella parete, quindi la porta accostata e infine mi precipitai giù per le scale.

Il cavallo quando mi vide, nitrì felice. Sembrava che si rendesse conto che l’attendeva una lunga e impetuosa cavalcata nella notte.

Non so quante miglia percorremmo. Io e il cavallo eravamo ormai una cosa sola. I rami che si protendevano dagli alberi della foresta strapparono la mia biancheria di bisso finissimo. La luce opalescente del plenilunio fece brillare la mia pelle perlacea e infiammò i miei rossi capelli.

Galoppai e galoppai, mettendo fra me e il Palazzo miglia e miglia di distanza. Chi, in quella notte, non riuscì a prendere sonno, ancora ricorda una figura femminile nuda, con i lunghi capelli ramati mossi dal vento, che cavalcava un nero cavallo arabo.
“Se non dormi”, dicono le madri ancor oggi ai loro bambini, “chiamo il diavolo che ti porterà via sul suo nero destriero”.

E gli occhi dei piccoli si chiudono, mentre sentono il vento caldo del plenilunio di maggio che solletica la loro pelle, mentre cavalcano a rotta di collo verso la libertà.

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