L’ARTIGLIO DEL MALE di Carlo Domenico Ragonese

Alla fine, quelle maledette coltellate le avevo persino dovuto contare.

Cinquantasette.

Erano cinquantasette le coltellate sferrate sul povero corpo di Pinuccio.

Deciso a scoprire chi c’era dietro a tale efferato delitto, lo zio Filippo si fece in quattro per ottenere dal sottintendente del distretto responsabile della polizia l’incarico ufficiale di indagare.

Appena ottenuto l’atto, lo zio ordinò di far trasferire immediatamente la salma nella nostra cappella di famiglia, all’ala est della proprietà.

Il maresciallo delle guardie e il parroco della Basilica collegiata di San Sebastiano, dove il corpicino era stato sistemato, non avevano osato opporsi.

Barone dei casali delle terre di Jaci, oltre che rinomato medico, lo zio sapeva farsi valere. Per togliere ogni dubbio di chi fosse il titolare dell’indagine, al messo del tribunale che aveva eseguito l’ordine, lo zio aveva consegnato la lettera di nomina firmata dal Viceré in persona.

Il documento gli conferiva non solo le pieni funzioni e responsabilità di indagare sul corpo della martoriata vittima, ma anche di cercare di scoprire il colpevole, con l’annesso invito alle autorità locali a collaborare con lui.  

Zia Lella, Cetti e i domestici, terrorizzati da quello che avrebbero potuto vedere, erano stati allontanati nella villa di campagna. Io rimasi nella villa con lo zio, a cercare di capire chi avesse potuto commettere un atto così orribile. Chi poteva avercela così tanto con quel ragazzino? E perché? Queste erano le domande che mi ossessionavano.

Poco prima dell’alba, lo zio apparve sulla soglia della mia camera e mi fissò senza dir nulla. Dal suo sguardo acuto capii che dovevo andare con lui.

– Ci riuniamo tra un’ora nella Sala Grande – disse con tono che non ammetteva obiezioni.

Mi alzai dalla poltrona abbandonando il libro che durante la notte mi aveva impedito di rimanere costante preda degli incubi, e mi fiondai allo scrittoio. Bagnai la penna d’oca nella boccetta dell’inchiostro e sul foglio già pronto sul ripiano scrissi veloce:

“Ma è proprio necessario?”.

Mostrai il foglio allo zio, che era rimasto sull’uscio.

– Nipote, sei muto da oltre un anno, ormai, e dobbiamo tentarle tutte – disse buttando uno sguardo sul foglio solo dopo aver parlato. – E poi… è pietoso anche per me tutto questo, non credere – continuò, con una tristezza nei suoi occhi. – Volevo bene a quel moccioso. 

I ricordi affiorarono: l’ultima volta che vidi Pinuccio, pieno di vita, in mezzo alla strada, con il dito in bocca e le guance splendenti come un papavero. Attendeva sullo stradone, sapendo che sarei dovuto passare di lì con la carrozza. Mi gridò con entusiasmo che aveva ottenuto il permesso di suo padre per andare a raccogliere molluschi e ricci di mare con me alle Acque Grandi della Timpa, come gli avevo promesso la settimana precedente.

La carrozza lo sorpassò e io, trascinato dal suo entusiasmo, mi girai a guardarlo dal finestrino posteriore. Lo vidi salutarmi con la mano aperta, poi fare il saluto militare, girarsi su sé stesso e correre via con il legno tra le gambe, battendo la mano sull’anca…

Dio… non sapeva che correva verso la morte.

Dovevamo incontrarci davanti alla chiesetta della Madonna dell’Aiuto all’imbocco del sentiero per la Timpa.

Ma all’appuntamento Pinuccio non si era visto.

Sapevo che non si sarebbe mai avventurato da solo per il sentiero. Gli scogli alti e i muretti a secco lo spaventavano, tanto da alimentare la sua immaginazione con possibili minacce nascoste dietro gli alberi e la densa edera arborescente che orlava il passaggio. Mi confessò che aveva sempre temuto che pirati in agguato potessero balzare fuori da quei nascondigli.

Deluso dall’assenza del mio giovane compagno, decisi di tornare sui miei passi e dirigermi verso la sua abitazione.

Il cancello del cortile dove il padre di Pinuccio s’intratteneva spesso a lavorare il legno era rimasto aperto, e la porta d’ingresso era spalancata.

Bussai alla porta, ma il mio richiamo non ebbe risposta. Decisi di entrare, chiamando Pinuccio mentre percorrevo il corridoio che portava all’interno della casa.

L’assenza di qualsiasi rumore mi fece sospettare il peggio.

Attraversato il breve corridoio e salite le scale che conducevano al piano superiore, mi trovai di fronte a un’immagine che mi lasciò senza fiato. Il corpo esile di Pinuccio giaceva raggomitolato sul suo letto, in una posizione che preannunciava il suo destino tragico. La testa era inclinata all’indietro, gli occhi aperti avevano perso ogni scintilla di vita.

Quel volto che avevo visto così spesso illuminato dalla gioia ora era immobile e segnato dalla morte. Gli intestini sporgevano dal suo ventre, in una macabra danza di distruzione. L’espressione vitrea che dominava il suo volto sembrava fissare un orizzonte lontano, oltre la comprensione umana.

Quella visione rimase impressa nella mia mente, un ritratto dell’orrore che mi avrebbe perseguitato per sempre.

L’invito dello zio a partecipare all’esame del cadavere di Pinuccio era un atto estremo, una terapia per il mio stato d’animo malato che durava da un anno. Sperava che questa esperienza avrebbe agitato le acque stagnanti della mia psiche, che mi avrebbe costretto ad affrontare l’accumulo di emozioni che avevo nascosto dentro di me. Forse, nella scossa emotiva, si nascondeva la chiave per sciogliere il nodo che aveva chiuso la mia voce.

La voce, da un giorno all’altro, si era spezzata senza una causa apparente. Come se fosse stata inghiottita da un buco nero, senza alcun motivo fisiologico o logico. Così come era svanita, lo zio sperava che potesse ritornare, emergere dallo stesso vuoto da cui era scomparsa.

Lo zio aveva approfondito diversi casi clinici e si era addentrato nelle teorie mediche del suo tempo. Aveva studiato i sistemi meccanicisti di Friederich Hoffmann e l’animismo di Georg Ernst Stahl.

Tuttavia, sembrava che la sua prospettiva professionale fosse maggiormente orientata verso le teorie del suo amico e collega, John Brown, con il quale manteneva una fitta corrispondenza epistolare.

Era proprio mentre stavo immerso nelle pagine di Brown che lo zio mi aveva interrotto, ordinandomi di prepararmi per l’esame del cadavere di Pinuccio.

Le teorie di Brown suggerivano che le malattie derivassero da un aumento o una riduzione dell’eccitabilità, sia a livello locale che generale. Nel mio caso, lo zio riteneva che un brusco calo degli stimoli interni fosse la causa del mio stato. L’abbandono dell’ordine francescano aveva sconvolto l’equilibrio mentale che avevo costruito.

Le aspettative erano state deluse, il mio mondo e la mia fede erano crollati contemporaneamente. Questo stato di disillusione aveva influito sul mio equilibrio emotivo, particolarmente in un aspetto cruciale dell’interazione umana: il linguaggio stesso. La mia incapacità di comunicare aveva accentuato la sensazione di distacco dal mondo. La morte di Pinuccio, in tutto il suo orrore, aveva ulteriormente amplificato questa condizione precaria. La diagnosi dello zio era che avessi perso stimoli vitali e che dovesse avvenire una sorta di risveglio per ristabilire un equilibrio.

Ma il mio disagio era palpabile. Avevo scoperto il cadavere di Pinuccio, e solo il pensiero di dover assistere a ulteriori scene orrorifici mi metteva a disagio.

Non ero certo pronto a fronteggiare un’altra scossa emotiva.

Ma lo zio era inflessibile nella sua determinazione. La sua preoccupazione non era solo di un medico, ma di un parente affettuoso. Voleva che io reagissi, che le mie emozioni non si spegnessero nel limbo di inoperosità in cui ero precipitato. Questo suo impegno nasceva dalla sua profonda preoccupazione per il mio benessere, la sua incapacità di sopportare la vista della mia sofferenza. Era disposto a qualsiasi misura pur di farmi ritrovare una connessione con il mondo e con me stesso.

La scoperta della mia invalidità al mattino mi faceva gelare il sangue nelle vene. Era come se mi svegliassi sepolto vivo in un sotterraneo.

Prima, quando cercavo di parlare e le parole si inceppavano, quando le corde vocali emettevano solo suoni gutturali e raschi orribili, provavo una sorta di frustrazione impotente.

Ora, invece, un urlo silenzioso sembrava essere costantemente imprigionato in me, una pressione interna pronta a esplodere.

E tutto questo dovevo sopportarlo insieme all’incomprensione dei miei genitori.

Le loro lettere erano piene di rimproveri e biasimi. Per loro, la mia condizione rappresentava una punizione divina, il giusto castigo per aver abbandonato l’Ordine religioso. Non riuscivano a capire come avessi potuto diventare muto da un giorno all’altro. La loro risposta semplice era quella di addossare a me questa “malattia”, come se la mia menomazione fosse la conseguenza diretta delle mie scelte di vita.

La loro incoerenza era sconcertante.

Prima non volevano che mi unissi all’Ordine, e ora si scandalizzavano perché avevo rinunciato alla vita ecclesiastica. Mi rendevo conto che avrei potuto essere un problema per loro, qualunque fosse stata la mia scelta.

E poi, con la scusa che lo zio era medico e che si sarebbe preso cura della mia salute, avevano in qualche modo scaricato il “problema” su di lui. Mi sentivo come un sassolino sul sentiero, spostato con un calcio.

Guardai l’orologio a forma di cuore appeso alla parete e capii che dovevo muovermi. Nonostante l’ansia di affrontare un altro momento difficile, non avevo alcuna intenzione di deludere lo zio. La sua unica preoccupazione era la mia guarigione, e io condividevo la stessa determinazione. Sapevo che voleva semplicemente il mio bene, la mia ripresa, e desideravo la stessa cosa.

Con le sue balconate che si sviluppavano tutto intorno, la sala grande emergeva come il cuore più arioso e luminoso dell’intero palazzo.

Benché io detestassi il suo esotismo, dovevo ammettere che la sala era stata decorata con un raffinato gusto. Zia Lella aveva commissionato la decorazione a nientemeno che Isidore Carneval in persona. Nella già ricca partitura degli ornamenti sulle pareti, il rinomato architetto aveva aggiunto pannelli di lacca antica, con fondo nero, importati direttamente dall’Estremo Oriente. Zia Lella amava chiamarla la “Sala dei Cinesi”.

Ma io continuavo a percepirvi un’inequivocabile impronta francese. Dopotutto, al Circolo non si faceva che ammetterlo tra i denti: i detestati transalpini avevano ormai assunto il ruolo di maestri nel campo artistico, emergendo nell’arena europea come gli incontestati arbitri del buon gusto.

Il colore livido della morte irrompeva nell’armonia delle decorazioni di stile cinese. Il corpicino informe, arrotolato in una posizione fetale e con il collo contorto all’indietro, gli intestini rintanati nel ventre, era stato posato sopra il grande tavolo rettangolare in legno di noce e mogano al centro della sala.

Quel mobile era stato costruito dalle sapienti mani di Vito Gangemi, il quale aveva adornato il pregevole piano con angoli arrotondati e una doppia scanalatura che percorreva i bordi.

Nonostante il lento declino dei tessuti corporei avesse ostacolato la putrefazione, l’odore di morte che si diffondeva dal cadavere fluttuava nell’aria. Lo zio aveva fatto spostare le tende, aprire ogni porta e finestra, cercando in ogni modo di disperdere quella pestilenziale presenza.

Al maresciallo delle guardie si accompagnavano il soldato Auteri e padre Virgilio, il parroco di Aci Sant’Antonio.

Prima di iniziare, lo zio distribuì maschere facciali di tessuto e ci istruì a legare i due lembi dietro la testa al suo cenno. Queste maschere erano imbevute di essenze che dovevano proteggerci dai miasmi mortiferi.

Poi ci invitò a prendere posto.

Nonostante la cerimonia, il maresciallo delle guardie e il soldato Auteri non rimossero i rispettivi tricorni e restarono in piedi anziché accomodarsi sulle poltrone. La loro formazione militare non consentiva tali distrazioni, sottolineò il maresciallo. Erano in servizio, dopotutto. Inoltre, le stoffe delle loro uniformi rustiche non erano adatte alla delicatezza della seta delle poltrone, il che avrebbe potuto rovinarle.

L’espressione dello zio sembrava suggerire che stava per rispondere in tono polemico, ma alla fine optò per la prudenza. Si limitò a bofonchiare qualcosa, sfogando la sua insoddisfazione in un lieve mormorio.

In contrasto, padre Virgilio, un uomo corpulento con una corona di capelli grigi intorno al cranio dal colorito roseo, si sedette senza alcuna preoccupazione per la delicatezza delle poltrone in seta. Io trovai posto su un divano all’angolo della sala. Da quella posizione, lo sguardo di Pinuccio sembrava fissarmi, carico della sua espressione mortale: il volto ormai affranto, la pelle aderente alle ossa, gli occhi fissi in un vuoto insondabile.

Lo zio si liberò della giacca e della parrucca, gettandole quasi casualmente da parte, e quindi indossò la maschera facciale e un camice. Nel frattempo, il suo sguardo si fece più severo, manifestando una certa determinazione. Respirò profondamente, poi liberò il cadavere dai corti pantaloni e dalla giacchetta. Per quanto riguardava la camicia, fu necessario tagliarla pezzo per pezzo con delle piccole forbici, poiché il coagulo di sangue l’aveva quasi fusa con la pelle, rendendola un secondo strato cutaneo.

Fu un’immagine terribile da contemplare. Le ferite coprivano tutto il corpo: schiena, fianchi, torace. Lo zio ci spiegò che chiunque avesse spezzato il collo del giovane, torcendo con violenza la testa all’indietro, doveva avere mani abbastanza grandi, come dimostravano i lividi e le impronte delle dita marcate attorno al collo.

Rivelò che probabilmente erano state diverse persone a compiere gli attacchi.

Poi, indossando le maschere e avvicinandoci alla salma, lo zio ci informò che l’arma utilizzata era un pugnale con una lama lunga più di due palmi, a doppio taglio e punta acuminata. Cinquantasette ferite erano un numero eccessivo per essere state inflitte da un singolo assassino. Le ferite, proseguì spiegando, presentavano diverse profondità. Dilatando le ferite con un bisturi, ci mostrò come alcune di esse avessero penetrato il corpo solo superficialmente, mentre altre avessero raggiunto profondità maggiori.

Poi pronunciò qualcosa che mi colpì profondamente. Le ferite superficiali e superficialmente sfrangiate potevano essere state inflitte da un ragazzo. Tuttavia, la quantità di sangue persa e la posizione in cui il cadavere era stato trovato, secondo lo zio, non giustificavano un simile versamento ematico. Le ferite e la quantità di sangue non erano congruenti con la postura supina in cui era stato scoperto il corpo. Come affermava lo zio, in quella posizione, avremmo visto fuoriuscire solo un terzo del sangue effettivamente perso.

A quel punto, lo zio smise di parlare e si rivolse a noi con uno sguardo intenso, quasi come se aspettasse che facessimo delle domande. Ma nessuno di noi disse nulla. Nell’aria s’impigliavano solo i nostri pensieri. Persino i soliti suoni infinitesimi provenienti dall’esterno sembravano assenti.

Il silenzio venne interrotto dal soldato Auteri, che sollevando la maschera, condivise il suo punto di vista.

– Sapete, eccellenza, ci sono particolari di questo omicidio che ricordano molto il caso irrisolto della figlia del commendator Angelo Mezzasalma, trovata assassinata nelle campagne delle Terreforti un anno fa.

– Avete ragione – rispose lo zio.  –  In effetti, ci sono diversi elementi di questo delitto che sono simili al ritrovamento del corpo della figlia del commendator Mezzasalma. Anche lei fu trovata con il corpo privo di sangue e con numerose ferite da taglio.

– E anche quella donna aveva le abrasioni alle caviglie – contribuì il soldato Auteri.

Ma il maresciallo intervenne con voce baritonale, mettendo fine all’ulteriore intervento del soldato:

– Basta così, Auteri. Nessuno ha chiesto la tua opinione. È ovvio che questi accostamenti tra i due omicidi non richiedono un genio per essere notati. Stiamo parlando della stessa sequenza di eventi in entrambi i casi. La domanda semmai è: chi sono gli autori di questi omicidi?

Il soldato Auteri, dagli occhi grigi straordinariamente intensi in un viso scuro dall’abbronzatura, dovette sicuramente faticare non poco, ma fu costretto a scusarsi con il suo superiore. La potenza del mito dell’autorità militare, che spesso era idealizzata da alcuni intellettuali all’Accademia, ora si concretizzava davanti a me nella sua limitata e quasi caricaturale espressione. Chiedere scusa, anche quando si è detto qualcosa di ragionevole e pertinente. Questo era il cuore del mito.

Guardai il mio riflesso nello specchio sulla parete opposta e alzai le sopracciglia, comunicando alla mia immagine riflessa quello che pensavo del maresciallo: con quella figura da lottatore, il viso piatto dai lineamenti duri, i baffi folti in evidenza, sembrava incarnare il prototipo dell’ufficiale subalterno di carriera, che poteva sembrare un po’ sempliciotto e semianalfabeta, e quindi privo di complessità morali.

La conversazione tra lo zio, il maresciallo delle guardie e padre Virgilio sembrava aver proseguito, per poi interrompersi improvvisamente, come se tutti fossero stati afflitti da una certa stanchezza e necessità di riflessione. Era il tipo di pausa che si fa quando si è detto molto e si ha bisogno di un momento di respiro, o quando ci sono ancora molte informazioni da assimilare e valutare. Durante quelle pause, io mi ero ritirato in un mutismo quasi completo, immerso nei miei pensieri.

– Qualche sospettato? – fu la domanda che lo zio pose a un certo punto. La disse senza fissare nessuno dei presenti negli occhi.

Padre Virgilio, che si era alzato e stava osservando le decorazioni sulla volta acuta del soffitto, girò il suo corpo panciuto come un perno. Il suo sguardo passò dal volto dello zio a quello del maresciallo delle guardie. Quel gesto sembrava esprimere una certa contrarietà alla domanda, anche se, in realtà, non aveva motivo per farlo. Dopo tutto, lo zio aveva fornito una spiegazione tecnica e scientifica che nessuno nella stanza poteva contestare.

– Al momento no – rispose il maresciallo. – Tuttavia, penso che i responsabili di questo omicidio non si trovino qui ad Aci Sant’Antonio.

– Escluderei l’ipotesi di persone esterne al paese – intervenne lo zio.

– Ma perché lo pensate, vostra eccellenza? – chiese il parroco.

– Vedete, padre, Pinuccio è stato rapito da persone sconosciute e portato in un luogo ignoto. I suoi aguzzini lo hanno torturato prima di ucciderlo, poi hanno appeso il suo corpo a testa in giù da una corda per almeno tre ore. Infine, lo hanno riportato a casa e lasciato nel suo letto. Mi sembra difficile che degli estranei possano fare tutto ciò senza essere visti da qualcuno del luogo. Senza conoscere bene il territorio, avrebbero incontrato difficoltà nei loro movimenti.

– Mi scusi, barone – disse il maresciallo con tono sicuro, – ma l’ipotesi che l’assassino sia qualcuno del paese è ancora tutta da dimostrare. Stiamo pianificando delle indagini e cercheremo prove. Vi prego, però, di tenere queste supposizioni per voi. La popolazione è già abbastanza agitata, non c’è bisogno di spaventarla ulteriormente.

Le sopracciglia del soldato Auteri si aggrottarono in un’espressione di dubbio. Sembrava in disaccordo con l’opinione del suo superiore. Ero certo che, se gli fosse stato permesso di parlare, avrebbe appoggiato le argomentazioni dello zio.

– Ascoltate il consiglio del maresciallo, barone – disse padre Virgilio. Dopo un breve silenzio, aggiunse: – L’esperienza del maresciallo sarà preziosa.

Lo zio, evidenziando una contrarietà che riconoscevo bene, gettò uno sguardo a terra. Poi, rivolgendosi al parroco, disse:

– Certamente, il maresciallo è esperto nel suo campo, ma in questo caso sono io a decidere che tipo di indagine debbono essere avviate e ritengo importante che tutti voi teniate presente questa circostanza.

Mi feci avanti attraverso i cipressi, afferrando saldamente la maniglia della piccola bara. Un brivido mi percorse quando suonò la prima campana. La scena rimaneva impressa dentro di me: Pinuccio che faceva una piroetta e poi si allontanava a galoppo con il suo cavallo di legno tra le gambe.

Volli guardare lo zio, dall’altro lato della bara. Invece di trovare conforto nel suo sguardo, scorsi una smorfia di disperazione sul suo volto. Sbiancò, come se in quel momento fosse diventato consapevole di qualcosa di terribile che lo aveva colpito. Sentii le sue parole balbettate e questo mi inquietò profondamente.

– Mio Dio, Cetti…

I successivi quattro rintocchi della campana furono spaventosi. Per la prima volta nella mia vita, sperimentai gli effetti del terrore. La frase dello zio riguardo a Cetti era inquietante. Il fatto che Pinuccio e la figlia di Angelo Mezzasalma fossero stati uccisi nello stesso modo significava che i loro assassini erano ancora liberi. E avrebbero potuto uccidere di nuovo. Cetti era ora un potenziale bersaglio, così come lo erano tutti gli altri bambini di Aci Sant’Antonio. Questa consapevolezza sembrò attraversare l’anima dello zio e, allo stesso tempo, penetrò anche in me come una lama affilata.

Finalmente raggiungemmo il luogo della sepoltura, un pezzo di terra riservato ai poveri. C’era solo un piccolo gruppo di persone. Era strano vedere i becchini ai lati della piccola fossa, con le loro vanghe piantate nella terra, in attesa, silenziosi ma curiosi.

Li riconobbi: Francoise, soprannominato “la serpe”, e Carmelo Calcamo, detto “il calcato”. Avevano entrambi uno sguardo duro, quello sguardo di chiunque li conoscesse. Nei loro occhi brillava quel sentimento nascosto che si nutre della sofferenza altrui, una sorta di energia segreta. Era simile a ciò che si può scorgere negli occhi di un animale. Solo che in quel momento, mettevano un cappuccio al resto di umanità che poteva ancora esserci in loro. Se non fosse stato per il fatto che erano stati incaricati dal sindaco per l’evento, probabilmente non avrebbero nemmeno partecipato al funerale.

Depositarono la bara sul bordo della fossa appena scavata, in attesa della cerimonia funebre.

Il sole era appena sorto, nascondendosi dietro le tombe. Era solo questione di ore prima che rivelasse il dramma terribile.

L’ostinazione dello zio nel voler celebrare il funerale all’alba aveva prevalso sulla preferenza del sindaco, che avrebbe preferito che la cerimonia si svolgesse nel tardo pomeriggio, non durante le ore di mercato del pesce. La chiusura del mercato per il lutto cittadino avrebbe comportato perdite economiche per i commercianti e disagi per gli abitanti di Aci Sant’Antonio.

Ma queste considerazioni economiche erano lontane dai pensieri dello zio, che riteneva che la preoccupazione dei commercianti dimostrasse indifferenza alle tragedie della vita. Già durante la sepoltura della figlia di Angelo Mezzasalma, avevano dimostrato questa indifferenza facendo aspettare il parroco. E, nonostante ciò, molti non parteciparono al funerale.

L’alba faticava a illuminare il cielo.

Personalmente, non mi dispiaceva. Dopo la luce cruda nella sala dei cinesi, che aveva esposto il corpo di Pinuccio in modo crudele, desideravo l’ombra. Il dolore per la morte di Pinuccio sarebbe stato ancora più insopportabile alla luce piena del giorno. E sicuramente lo sarebbe stato anche per il povero padre di Pinuccio, che si trovava davanti a noi, vuoto e disperato.

In momenti di tragedia, si preferisce l’oscurità o la penombra alla luce intensa del sole. Io avrei persino gradito un vento forte, uno di quelli che può sradicare gli alberi, che può sconvolgere tutto. Un vento così potente da smuovere le tombe, da distruggere ogni tetto e ridurre il cimitero a un cumulo di croci storte e capovolte.

Il padre di Pinuccio, Vito, si chinava a baciare rapidamente le dita e toccava continuamente la bara, facendo il segno della croce molte volte. Osservava attentamente i becchini che, con corde legate intorno alla bara, calavano lentamente Pinuccio nella fossa. Francoise la serpe aveva gli occhi stretti e la fronte tirata all’indietro, una combinazione che faceva onore al suo soprannome. Carmelo Calcamo, detto il calcato, aveva sempre un sorriso sul volto, ma non si capiva cosa nascondesse nel suo cuore.

La campana suonò.

Iniziò la messa. Lo zio aveva insistito con padre Virgilio affinché la messa non fosse celebrata in latino. Doveva essere compresa da tutti, perché il defunto era una persona povera, pianta da gente povera che non conosceva il latino. Era una messa per i poveri, e ogni parola doveva essere comprensibile a chiunque. Il parroco accettò, minacciato dalle conseguenze che lo zio aveva promesso di attuare per le future opere di carità e contributi alla Chiesa. Lo zio gli consegnò una copia della Bibbia Martini, pubblicata l’anno prima dal monsignor Antonio Martini. Conteneva solo il primo volume del Nuovo Testamento, “Matteo e Marco”, ma lo zio affermò che sarebbe stato sufficiente per la messa, in quanto era tradotto in italiano.

Alla fine, padre Virgilio cedette: avrebbe celebrato la messa in latino e poi in italiano. Lo zio fu irremovibile: la messa doveva essere solo in italiano, la lingua dei vivi, non quella dei morti.

Intorno alla bara si era radunata una piccola folla, troppo piccola per un evento così tragico. Principalmente erano i poveri di Aci Sant’Antonio che erano venuti a rendere omaggio a Pinuccio, che sentivano come uno di loro. Sarebbero venuti comunque, anche per onorare il loro benefattore, il barone medico Filippo Coviello delle Terre di Jaci.

In un silenzio totale, tutti gli occhi erano fissi sulla piccola bara, ora posizionata nella fossa. Il parroco iniziò la cerimonia.

– Quando i miei piedi, diventati già freddi e immobili, mi avvertiranno che il mio tempo in questo mondo sta per finire, misericordioso Gesù, abbi pietà di me.

Le parole erano pronunciate con un tono di voce alto, mentre avrei preferito che fossero state dette più sommessamente. E caddero nel momento in cui un piede mio si infossò nella terra, trasmettendomi un freddo pungente.

Ma non protestai.

Avevo in mente solo il sole che doveva ancora sorgere. Un cimitero illuminato dal sole sarebbe stato un evento che non avrei potuto affrontare. Bere la luce accecante della luce solare, in quel momento di dolore, sarebbe stato un tormento che non sarebbe svanito facilmente dentro di me. Un tormento che potevo vedere riflesso nella persona più colpita da tutto ciò: Vito, il padre. Ma c’erano anche coloro che non erano stati toccati dalla tragedia e che, per non essere scoperti per gli impostori che erano in realtà, avevano recitato la commedia del dolore. Come in una commedia che accompagna il dramma e che le dà il titolo, nei volti dei due mestieranti improvvisati a becchini – recitando il ruolo che si erano autoassegnati – c’era qualcosa di tangibile nell’aria. Era un titolo che potevi leggere chiaramente: Bestemmia.

Tranne zia Lella che non si sentiva bene, ci recammo tutti a messa.

Situata allo sbocco dell’ultima curva della strada maestra, a un viandante che si fosse trovato a uscire dal paese, la chiesa gli sarebbe apparsa a un centinaio di passi di fronte, formando con la fila di case sulla sinistra una L capovolta.

Alle spalle della struttura religiosa, alzando appena lo sguardo, sullo sfondo, lo stesso viandante avrebbe visto le bocche scure delle tre Caverne di Monteferro dominare sul promontorio. E, considerata la geografia dei luoghi, la chiesa poteva sembrargli una sentinella messa lì dall’Onnipotente, per sorvegliare il paese, scongiurando i fedeli di non proseguire oltre il proprio cammino. Gli usci scuri delle Caverne mi apparivano come le bocche di tre demoni bestemmiatori.

Le pitture murali esterne della chiesa, fatte per essere viste da lontano, come sempre mi provocavano una forte curiosità. Potendo raggiungere l’altezza di tre case poste una sopra l’altra, la gigantesca effige di San Cristoforo, a destra dell’entrata, occupava tutta l’elevazione della facciata sopra il muro di sostegno. A sinistra, scandita dalla scala d’ingresso, si sviluppava in quattro registri dall’alto in basso, innanzitutto le scene della vita di S. Stefano, in venti episodi, poi la Danza Macabra e infine i Sette peccati Capitali. La divisione in distinti scomparti organizzava la narrazione, essendo un unico racconto. Al posto d’onore, cioè sopra l’entrata, stava l’effige di Santo Stefano, attorniato da San Giorgio e da San Giacomo.

Mi rendevo conto che tra l’affresco monumentale e io che lo guardavo si stabiliva ogni volta un rapporto diretto, bilaterale, dove nessuna mediazione interveniva, donde, qui, l’importanza dello sguardo e dei gesti delle raffigurazioni.

Il caso di San Cristoforo era quello che mi colpiva più di tutti.

Leggendo gli innumerevoli detti che accompagnavano la sua rappresentazione, sapevo infatti che bastava aver scorto il suo viso per essere preservato quel giorno dal più terribile pericolo: quella della morte improvvisa.

Ma il San Cristoforo, raffigurato dentro il fiume con un bambino sulle spalle e sorreggendosi con un bastone, aveva lo sguardo rivolto in basso, e in pratica, non poteva incrociarsi mai con nessun altro sguardo. Per me era un controsenso, poiché il “portatore di Cristo” sembrava rifuggire dagli sguardi di chicchessia, come ritenendosi offeso di qualcosa. Mi riproposi che avrei chiesto di ciò spiegazioni allo zio, che sapevo documentato su tutte le cose religiose di Aci Sant’Antonio. Ma, sceso dal calesse, e avviandomi verso l’ingresso della chiesa, accadde un fatto strano. Il volto di San Cristoforo mi stava guardando. Sorrideva, irradiato di luce.

Diedi uno strattone alla giacca dello zio e gli feci segno di guardare il dipinto. Ma quando rivolsi nuovamente lo sguardo alla raffigurazione, questa si presentò com’era sempre stata: gli occhi di San Cristoforo erano bassi, nel dipinto, orientati nel fiume.

– Che diavolo ti prende? – mi disse lo zio.

Non mi avrebbe creduto. Scossi quindi le spalle, e lo sentii brontolare. Stavo dando i numeri.

In chiesa si aveva il banco in terza fila. I Ferri, marito moglie e figlia, occupavano il banco sulla fila di sinistra, proprio allato al nostro.

I Ferri erano allevatori di bestiame e gestivano una grande scuderia di loro proprietà proprio lassù a Monteferro.

Io capitai all’estremità del banco, accanto al signor Santo Ferri, che era a capo dell’altro banco. Era un energumeno con le spalle storte e un accenno di gobba; un gonfiore agli occhi prometteva in continuazione di liberarsi in pianto. Il fisico corpulento della moglie, soprannominata ironicamente dai paesani mamma sarta, poiché si dilettava a cucire da sé i vestiti per tutta la famiglia, gli teneva testa. La figlia, magra e verde come il basilico, stava in mezzo a loro come un qualcosa di spurio. In mezzo a quei due bastioni, non si trovava nella bambina alcuna somiglianza con loro.

La voce di padre Virgilio era una vera litania, non produceva che lamenti e sentenze. Egli si sforzava di spiegare perché nel mondo l’amore era latitante. Parole gettate al vento.

Si consumarono le prime preghiere. Si parlò del male nel mondo. Si cantò, ci s’inginocchiò, si congiunsero più volte le mani al Cristo in croce. Si arrivò al Padre Nostro e alla frase di rito: scambiatevi il segno della pace.

Fu allora che allungai la destra al signor Ferri. Ma lui, girandosi verso di me per offrirmi la sua mano, inaspettatamente si bloccò. Rimase inspiegabilmente a guardarmi in modo strano. Era come se qualcosa in me non lo persuadesse; poi, anticipando una mia qualunque reazione, mi levò gli occhi di dosso e rivolse lo sguardo al prete davanti a sé. La sua mano non aveva raggiunto la mia.

Continuavo a guardare il profilo del signor Ferri, che ostinatamente non accennava a girarsi verso di me, quando sentii Cetti tirarmi la giacca.

– Mih, Alfio, ma perché guardi così il signor Ferri? – mi disse.

Alle parole, la mocciosa accompagnò un colpetto con la mano contro la mia gamba, volendo probabilmente punire con quell’atto il mio disinteresse per la messa. Lì per lì non seppi cosa risponderle, ma lei mi sorrise e mi offrì la sua manina invitandomi a scambiare con lei il segno della pace. Io gliela strinsi con cautela, come sempre, per il timore di farle male.

Il parroco era ancora impegnato a infliggerci qualche raccomandazione.

Mi voltai di nuovo verso quel tipaccio di Ferri, volevo capire perché non mi aveva dato la mano. Scorsi la linea destra della sua fronte, sinistramente obliqua. Aveva cura di non lasciarsi fissare negli occhi, ma i muscoli intorno alla bocca tradivano certi movimenti interiori, rivelando le affezioni maligne dell’animo.

Da una sua gamba vidi far capolino il viso della piccola Maria.

Le sorrisi, e lei dovette trovare del coraggio, perché si sporse ancora uscendo interamente dalla fila mostrandosi a me. Mi fissava silenziosa. Sembrava incuriosita. Mi ostinai a guardare il suo abito. Sembrava la strozzasse. I bottoni nelle asole oltrepassavano il margine della piegatura e più che serrarlo l’indumento bollavano l’arte incerta e squilibrata di mamma sarta.

Ma fu tutta la scena che avevo davanti a colpirmi. Come in certe scatole cinesi, immaginai che in quel contesto la piccola Maria fungesse da oggetto che si scopre dopo l’eliminazione di sovrastrutture. Tolto un bastione, e poi l’altro, era da togliere quel vestito troppo abbottonato che era una vera minaccia per la sua gola. I bottoni neri del vestito, per nulla rilucenti, erano un richiamo ai suoi occhi smorti.

La messa finì e ci avviammo verso l’uscita. Le note dell’organo ci accompagnavano lungo la navata sprigionando letizia, e nel piazzale antistante alla chiesa portavano ancora il loro messaggio di pace. L’Ave Maria toccava il mio cuore con impeto. Mi sentivo riempito di un senso di pace. Strane sensazioni affioravano. Scoprendole, mi rendevo conto che le trovavo dentro di me perché posate da una mano santa.

L’aria pulsava e scintille scheggiavano il velo perlaceo dello sfondo. Ci avviammo al calesse con la fiumana dei fedeli che si diradava in lamentoso mormorio.

Cetti liberò il suo entusiasmo infantile sul piazzale. Batteva i piedi contro le formiche, ora le rincorreva fra gli interstizi del basolato, ora le stanava fra gli sparuti ciuffi d’erba, vociando non so bene cosa. Le avrebbe sterminate tutte se lo zio, fatti tre passi, non l’avesse bloccata.

– Cetti, ma non hai pietà per quelle povere formiche? – la rimproverò.

E poiché alla mocciosa stava per spuntarle il broncio, se la strinse al fianco. Lei, per nulla intimorita, di sotto l’arco del braccio dello zio, mi mostrò la linguaccia. Sarei andato a prenderla e l’avrei solleticata sotto le ascelle fino a farla morire dal ridere se non mi avesse raggiunto lei. Doveva farsi perdonare. La presi in braccio e la riempii di baci, sotto lo sguardo sorridente dello zio, che non perse occasione per allungarmi un rimprovero:

– Una figlia mi hai rovinato!

E io, per ripicca:

– Uauu! Bau!

E lui ancora:

– Cane sei!

Il calessino dei Ferri ci sfilò davanti, imboccando la strada per Monteferro.

La piccola Mariasi voltò verso di noi. Stava sempre con quell’aria silenziosa che mi incuteva una certa oppressione. Ogni volta che mi guardava in quel modo avevo come la sensazione che mi chiedesse aiuto.

Sentimmo chiamare alle nostre spalle. Era padre Virgilio che sull’uscio di chiesa faceva cenno allo zio di raggiungerlo.

– Tu sta’ qua e tieni d’occhio Cetti – mi ordinò lo zio prima di precipitarsi in chiesa.

Probabilmente padre Virgilio voleva parlare con lo zio degli sviluppi del delitto.

– Guarda lì, Alfio! – disse Cetti indicandomi col dito la strada che s’inerpicava verso Monteferro.

Il calessino dei Ferri si era fermato poco prima dell’ansa della prima curva, a un centinaio di passi in linea d’aria da noi. Il gobbo omone teneva la frusta sulla destra, sull’altra le redini. Il collo torto verso di noi, ci fissava. Alla sua sinistra, un po’ sporta rispetto alla figura del marito, quel tanto che la potevo scorgere, anche mamma sarta ci fissava: il suo volto era improntato in una risata muta, la bocca aperta lasciava intravedere il dente rotto a metà, i capelli erano irti come rami d’alberi che sparano da tutte le direzioni. Se lui sembrava appena scappato da galera, lei evasa da un manicomio. Era il silenzio dei loro sguardi che più mi colpiva.

L’occhio del cavallo era ben centrato dentro il paraocchi. Di certo l’animale avvertiva la nostra presenza per averci fiutato. Soffiava infatti un leggero venticello da levante che si spingeva verso il promontorio.

Alzai lo sguardo e mai come in quel momento le Caverne Monteferro dominavano sinistre.

Si raccontavano strane storie su quel posto. In paese si vociferava che L’intrigo di gallerie delle Caverne Monteferro in passato erano frequentate da membri di una misteriosa setta. In certe notti di luna piena, questi sinistri individui salivano in processione, muniti di torce, indossando abiti con la stoffa damascata.

Probabilmente erano soltanto racconti deformati da qualche pastore pauroso e suggestionabile.

I nitriti del cavallo dei Ferri mi arrivarono come una supplica. Era come se l’animale volesse attirare l’attenzione su di sé. Dovette accorgersi che mi stavo interessando a lui, perché a un tratto diventò più nervoso, s’impennò, e quel suo tentativo di guardarmi di striscio attraverso i paraocchi, oltre che incarnare un che di brada disperazione, riuscì a commuovermi. Colpiva in terra con le zampe anteriori, dibattendo con furia la testa, in segno di ribellione. Nella concitazione, la criniera gli si scompigliava. Con la destra il gobbo lo teneva stretto, limitandolo impietosamente nei movimenti, con l’altra mano schioccava la frusta per sconvolgerlo, annientarlo: doveva capire chi comandasse. L’agitarsi del cavallo, lo scarrocciare avanti indietro del calesse sullo sterrato, sollevava colonne di polvere che lentamente si espandevano tutto attorno.

Nella violenza della luce che ravvivava il cumulo di pietre ai margini del sentiero e nella nitidezza dei colori che dava vitalità alla vegetazione, quelle colonne di polvere avvolgevano drammaticamente la scena che avevo davanti proiettandola in una dimensione a sé. La racchiudevano in una cornice il cui quadro possedeva una forza sinistra. Tutto, “nel quadro”, si riassumeva in un ibrido spirituale, con lo sfondo la natura che sembrava covarsi delle serpi in seno: i coniugi Ferri.

Mi parve che la briglia non fosse montata correttamente al povero cavallo; il frontale era troppo stretto, il sottogola e il morso inadatti. L’animale doveva soffrire per ogni pressione alla bocca esercitata da quel bestione di Ferri, che non smetteva di strattonarlo e serrarlo con le redini a sé.

Le frustate intanto risuonavano maligne nell’aria, e il gobbo abbassò improvvisamente la mira. Con i paraocchi la povera bestia non dovette vederli arrivare i colpi, che crudelmente la presero alla nuca. Con l’anima raggelata e il sentimento stretto la guardavo torcersi inutilmente nel tentativo di sottrarsi alle frustate.

In questo frangente, in mezzo a loro, scorsi la piccola Ferri. Si era sporta in avanti: la bocca spalancata in un urlo muto, le mani a tapparsi le orecchie, gli occhi sbarrati contro un punto indefinito davanti a sé. Pensavo sempre a quel colletto troppo stretto a serrarle la gola, sempre quei bottoni che la racchiudevano in un abito troppo stretto. Un abito che sapeva di castigo. Era visibilmente sconvolta. Il braccio di traverso di mamma sarta la respinse brutalmente all’indietro, contro lo schienale del calesse.

Non avessi avuto Cetti in braccio, sarei andato di corsa a liberare Maria e il povero animale, dopo avrei pestato a sangue quella spregevole coppia di mostri.

Dallo zio Filippo avevo saputo che mamma sarta era anche una specie di guaritrice. Detentrice di conoscenze che le derivavano dalla raccolta di erbe medicamentose e da pratiche magiche – superstiziose, padroneggiava certe situazioni con superbia. La gente sapiente del luogo la considerava e valorizzava i suoi interventi. Ad Aci Sant’Antonio, l’attenzione per mamma sarta, sempre protagonista nello spazio della cura domestica, mai priva di talismani e amuleti, afferiva al sapere medico e a quello teologico.

Un fastidio notevole per lo zio, che nella sua attività di medico se la trovava spesso tra i piedi. Il marito, il gobbo omone, si occupava in prevalenza dell’allevamento di bovini che fungeva anche da mattatoio. Coloro che lo conoscevano bene, dicevano che provasse gusto a scannare gli animali.

Giurai a me stesso che, per aver maltrattato la piccola Maria e quel povero cavallo, l’avrebbero pagata cara entrambi. In qualche modo avrei fatto giustizia.

Sentii lo zio che mi chiamava. Sull’uscio di chiesa mi faceva ampi gesti con la mano: dovevo raggiungerlo. Quando mi voltai di nuovo verso i Ferri, ebbi il tempo di vedere la frusta attorcigliata sulla groppa piena del cavallo. Avviandosi per le caverne Monteferro, il povero animale si stendeva ora in uno sforzo violento.

Nelle mie orecchie le risate di quei maledetti echeggiarono ancora una volta.

Rinnovai il giuramento.

Alle prime luci dell’alba ero già sveglio. 

L’abbaiare in lontananza di un cane mi trasmetteva malinconia. Un gallo urlava il suo furore. Versai l’acqua della brocca e mi lavai, attento a non farmi sentire dalla servitù. Indossai i vestiti, poi alzai la ribalta dello scrittoio, penna in mano e scrissi: “Esco a sbrigare delle commissioni. Non state in pensiero per me.”

Lasciai il foglio in bella vista, in modo che gli zii potessero notarlo, e mi avviai per lo scalone.

Attraversai il cortile e mi diressi alle scuderie.

Come al solito, Eugenio lo stalliere sbucò da qualche parte. Stavolta mi aiutò ad attaccare il calesse.

– Aspettate – disse quando fui a cassetta. E mi stese una coperta sopra le gambe. – Farà freddo ancora per un paio d’ore.

Iniziava a schiarire e faceva freddo. Il mantice mi proteggeva se non altro dalla rugiada che in buona parte era nell’aria sottoforma di vapore. La sentivo ugualmente entrarmi nelle ossa.

La strada per arrivare alla scuderia dei Ferri era quella per Monteferro: dieci minuti di strada sterrata, scarsamente illuminata, e leggermente in salita.  Era meta di traffico di bovini che gli allevatori conducevano ai liberi pascoli, alle pendici del promontorio o a fondo valle, e poi con l’imbrunire riportavano alla scuderia.

Questa era una grande costruzione aziendale che si estendeva su un vasto terreno opportunamente spianato, situato proprio sotto le Caverne di Monteferro. Era stato scelto quel sito in modo che i locali chiusi potessero contrapporsi ai venti dominanti. Lo scopo era di assicurare ai paddocks la maggiore ventilazione possibile. Ero stato lì l’anno prima, con lo zio, che aveva voluto controllare di persona la consegna di una cospicua fornitura di fieno fatta pervenire dalle sue proprietà di fondovalle. Nell’occasione mi aveva spiegato tutto sull’allevamento dei bovini. Una testa così.

Se volevo beccare quello sgorbio del signor Ferri, non vi era che una soluzione: dovevo arrivare prima dei suoi lavoranti e aspettare il momento adatto per dargli una ripassata che se la sarebbe ricordata per il resto della sua vita. Magari beccavo anche mamma sarta, così li avrei sistemati entrambi. Se mi avessero riconosciuto, me la sarei cavata in un modo o nell’altro. In fondo ero figlio di un barone e nipote di un altro che ad Aci Sant’Antonio contribuiva a garantire il lavoro a molti, oltre che assistenza sanitaria. Ci avrebbero pensato bene, prima di denunciarmi alle guardie. Per la prima volta, approfittavo della mia condizione sociale privilegiata, ma lo facevo per uno scopo nobile.

Nessuno, alla presenza di un Coviello, poteva maltrattare una bambina e un povero animale e passarsela liscia!

Li avrei pestati a sangue, i due cornuti. Poi li avrei accusati di qualche nefandezza, magari di avermi derubato o mancato di rispetto. Le guardie avrebbero creduto alla parola di un barone e non certo a quella di sovversivi e scanna animali come i Ferri.

Mi soffermai in prossimità della struttura aziendale.

Legai il cavallo a un albero, distante dai recinti all’aperto sui lati est e sud. Si trattava di un’area scoperta dall’insolazione estiva; gli alberi a foglia caduca erano disposti per consentirne anche l’insolazione invernale (lo zio era stato pignolo nella sua spiegazione). Alzai lo sguardo: le bocche delle tre Caverne emettevano un urlo muto.

Ci doveva essere qualcuno dentro il capannone. Le torce ai lati della struttura centrale dei tre ingressi erano accese. Controllai con lo sguardo la zona circostante. Sotto una tettoia sorretta da tralicci, in un angolo del piazzale, a circa duecento passi da dove mi trovavo, vi erano dei cavalli attaccati ai rispettivi calessi.

Riconobbi il cavallo dei Ferri. Il calesse aveva il mantice alzato e mi sembrò di scorgere qualcuno.

Mi avvicinai cercando di non far rumore. Considerata la piccola sagoma, che intravedevo di spalle sul calesse, doveva trattarsi della piccola Maria Ferri. Ma era incredibile che a quell’ora si trovasse lì. Chiunque fosse, non doveva avermi sentito arrivare. E non doveva assolutamente vedermi. Con prudenza, mi avviai verso l’ingresso del capannone.

All’interno il complesso delle costruzioni comprendeva un insieme di aree coperte, intervallate l’una dall’altra da corridoi di servizio di circa quindici metri. L’ambiente era debolmente illuminato da qualche lume a olio appeso alle pareti. Attraversai la zona di riposo per gli animali. Erano divisi in gruppi secondo l’età: vitelli, capi giovani e vacche adulte.

Poi mi addentrai nella zona di alimentazione, dove le bestie a turno avrebbero mangiato negli appositi fienili orizzontali. Superai la zona di mungitura. Da ciò che mi avevo spiegato lo zio, sapevo che le vacche munte dovevano essere separate da quelle da mungere, ma non sapevo per quale motivo; quindi, mi avviai per i recinti di deambulazione, i silos, la zona di mangime, la zona di abbeveratoio…

A mano a mano che mi addentravo, una miriade di odori irritanti mi assaliva le narici.

Giunsi quasi alla fine del capannone. Davanti a me, in fondo, c’era solo un ultimo deposito.

Sentivo un cicaleccio di voci provenire proprio da lì. Mi avvicinai e buttai uno sguardo all’interno: era il deposito di fieno e paglia. Probabilmente si trattava del residuo della fornitura che aveva fatto lo zio l’anno prima a quel verme di Ferri.

Nonostante l’ora impensabile, erano già al lavoro. Possibile?

Varcai la soglia del deposito e mi appostai dietro a un covone.

A una cinquantina di passi, scorsi un gruppo di persone con cappucci a cono in testa. Stavano nello spiazzo, al centro del fienile. Indossavano casacche di cammellotto viola con grandi croci bianche capovolte sul petto. Uno degli incappucciati stava al centro di un cerchio umano: ognuno dava la mano all’altro, a formare la catena.

Sopra di loro c’erano solai di grande portata con balle di paglia. Sotto i loro piedi, uno strato di ghiaia sparso alla rinfusa. Tutto attorno era chiuso da pareti a scomparti in cui erano poste le balle di fieno.

Quattro persone erano fuori dal cerchio, rispettivamente in piedi ai quattro angoli di un altare di marmo bianco. La persona dentro il cerchio stava dicendo qualcosa. La voce mi sembrava di riconoscerla; era comunque una voce di donna. Per sentire cosa diceva dovetti incunearmi tra le balle di paglia nel passaggio, avvicinarmi ancora un poco.

– … Fratelli, per ingraziarci il principe è necessario un ultimo sacrificio. Sappiate che egli ha molto gradito l’ultima offerta. Ma affinché tutto sia compiuto, i sacrifici dovranno essere tre.

Non c’erano più dubbi, la voce stridula era quella di mamma sarta.

– L’ultimo sacrificio, dunque – continuava la voce. – E vi ricordo che la cerimonia deve consumarsi prima del giorno di Pasqua. Fratelli, se riusciremo, noi tutti saremo presi in grande considerazione dal grande principe.

– Hai già pensato a qualcuno in particolare per il sacrificio? – disse una voce di uomo.

Anche questo timbro di voce mi sembrò familiare. Dove diavolo l’avevo sentito?

Sì, fratelli. La figlia del barone medico. Cettina Coviello! – rispose la voce di mamma sarta.

Cetti, Dio mio! Me lo sentivo nelle ossa che era in pericolo. Stavo per buttarmi contro di loro alla cieca, ma ragionai. Non avevo armi ed erano in troppi, mi avrebbero sopraffatto.

Mi costrinsi a rimanere e ad ascoltare, a quel punto dovevo saperne di più.

– Facci dunque sapere come catturarla e come procedere – diceva intanto un’altra voce da uomo.

Anche questa tonalità di voce mi sembrò familiare.

– Maria farà da esca. È la volontà del principe: desidera che sia lei, di suo pugno, a colpire.

Evidentemente mamma sarta si riferiva a sua figlia Maria.

Era pazzesco.

Ma è gracile, non parla, non ce la farà! – rispose la voce di uomo di prima. 

– E poi non avrà la forza necessaria per sferrare i colpi decisivi – disse la voce dell’altro.

– Abbiate fede. Al momento opportuno le metterò io l’arma in mano. L’ha già fatto con il figlio di Vito. È da una settimana che le sto insegnando come colpire alla gola gli animali. Ci riuscirà anche con un essere umano. Non ci vorrà troppa forza per recidere la carotide: un colpo secco nel punto giusto, e vedrete che ce la farà.  Tutto comunque dovrà essere pronto prima di Pasqua.

– Ma dov’è tua figlia? – dissero ancora.

– L’ho mandata a prendere il sacro amuleto che ho lasciato nel calesse.

– Abbiamo voglia di lei.

– No. Ve l’ho già detto fratelli: mia figlia non è per voi. Con lei presente, possiamo finalmente liberare al principe le nostre parole di preghiera. Lui verrà tra noi, perché so che vuole Maria. Ora preghiamo.

Non dimenticherò mai il loro inno dannato a Satana.

Dunque, erano stati loro a uccidere Pinuccio e la figlia del commendatore Mezzasalma.

Dovevo fare qualcosa. Non potevo permettere che facessero del male a Cetti e alla piccola Maria. Mi guardai attorno: solo montagne di fieno e balle di paglia accatastate alle pareti e sul solaio. Alcune balle stavano sul passaggio che conduceva a loro. Mi voltai: l’ingresso del deposito aveva un’enorme chiusura di ferro a due battenti.

L’idea che mi venne in seguito fu la conseguenza di questo mio ragionamento: se avessi sbarrato loro l’unica via d’uscita dal deposito, appiccando il fuoco alla paglia lungo il percorso, le fiamme si sarebbero propagate in un battibaleno nel deposito e quei bastardi non avrebbero avuto scampo. Sarebbero morti arsi dalle fiamme. O loro o Cetti e la piccola Maria, non avevo scelta.

E poi avevano ucciso Pinuccio!

Considerai che, data la struttura del capannone e la distanza tra ogni reparto e l’altro, gli animali avrebbero fatto in tempo a fuggire. Unico dubbio. La piccola sagoma che avevo visto prima nel piazzale era davvero quella della piccola Maria? Mamma sarta aveva detto di averla mandata a prendere un amuleto nel calesse. Non poteva che essere lei.

Dovevo agire subito.

Andai alla ricerca di un lume. Ne trovai uno nella zona abbeveratoio, appeso a un palo. Lo presi e ritornai con cautela nel deposito. Mi assicurai ancora una volta che in mezzo a loro non ci fosse la piccola Maria e appiccai il fuoco alle prime balle di paglia sistemate lungo il passaggio, poi ad alcune accatastate alle pareti.

Le fiamme, com’era logico supporre, si svilupparono rapidamente. Le grida dei maledetti cominciarono a confondersi con i muggiti degli animali che già presagivano il pericolo. Una barriera di fuoco si alimentò nel passaggio impedendo a quegli assassini di proseguire verso l’ingresso. Mi affrettai a chiudere e a sprangare l’enorme chiusura del deposito. Ma non sarebbero mai potuti arrivare fino a dove mi trovavo io. Mi avviai di corsa verso l’uscita; le bestie fuggivano già verso l’uscita. A metà percorso mi imbattei nella piccola Maria. Si era bloccata lungo il passaggio. Con la bocca aperta e lo sguardo smarrito, fissava l’incendio che si sprigionava alle mie spalle. La presi in braccio. Tentai di rassicurarla con lo sguardo. Lei mi guardava con due occhioni così. Mentre correvo, sentivo urla disperate. Nessun ripensamento, non provavo nessuna pena per loro. Avevo ancora negli occhi il corpo di Pinuccio, il modo come lo avevano ridotto. Meritavano mille volte di morire in quel modo.    

Misi a sedere la bambina sul calesse. Volevo rassicurarla in qualche modo, farle capire che da me non aveva nulla da temere. Lei mi guardava, mugolava, si sforzava di farmi capire non so che. Cercai a mia volta di dirle qualcosa a gesti. Fu inutile: eravamo solo due muti che cercavano di mettersi disperatamente in comunicazione tra loro. Lei abbassò gli occhi: tra le mani teneva un grande medaglione con inciso una croce capovolta; lo buttò per terra e poi alzò lo sguardo su di me. A quel punto mi sorrise. La strinsi a me. Era la prima volta che la vedevo sorridere. Forse aveva capito che l’avevo appena liberata da un incubo.

Dal piazzale cercai di guadagnare il sentiero, ma fui ostacolato dal bestiame in fuga. Terrorizzati, una volta fuori dal capannone gli animali scappavano da tutte le direzioni. Avrebbero corso all’impazzata per ore. 

Quando la strada fu sgombra, ci avviammo.  Mi sentivo alleggerito nel cuore. Uccidendo le persone che avevano ammazzato Pinuccio, avevo mantenuto la promessa che mi ero fatta nel cuore, testimone Dio Onnipotente. Lo avrei rifatto mille volte se fosse stato necessario. Nessuna ombra di rimorso. Mi ripetevo che il male andava eliminato, e che nessun tipo di perdono era possibile per quei mostri.

Arrivai ad Aci Sant’Antonio che c’era un gran fermento per la strada.

Al suono a martello delle campane si accompagnava un gran vociare. Gli uomini si stavano organizzando per correre a Monteferro. Il carro con la macchina a vapore dei pompieri sopraggiunse dopo poco.

Il corpo dei pompieri era stato costituito per volontà dello zio e oltre all’autopompa con gittata da sessantacinque metri, il carro utilizzava il vapore per spostarsi ed era dotato di tutta l’attrezzatura necessaria per lo spegnimento delle fiamme.

Nelle loro uniformi con le giberne, pennacchi, sciabole stivaloni e bandoliere, i pompieri già si consultavano con le guardie e col gruppo di civili con i carri e quelli a cavallo. I civili, una volta sul posto, sarebbero stati utili come portatori d’acqua che trasportavano dentro i secchi coperti di stanghe. I pompieri avevano portato con sé gli strumenti adatti allo scopo: scudi, cervelliere, cappellotti di ferro, scure, uncini, ferri, lance, lancioni. La squadra composta dai falegnami, fabbri e muratori, che per il loro stesso lavoro sapevano come e dove intervenire per fermare o limitare il fuoco, era in testa e ordinava agli altri che si sarebbero dovuti occupare del trasporto e del “lancio” dell’acqua.

Pensai che fosse inutile tutta quella loro attrezzatura. Arrivati a Monteferro, probabilmente avrebbero trovato solo travi annerite.

Scorsi lo zio che discuteva con le guardie. Gli andai incontro.

Anche lui mi vide.

– Che diavolo ci fai qui con quella bambina?

Mimai non so nemmeno io che cosa.

– L’hai incontrata per strada?

Annuii.

– Probabilmente è scappata dall’incendio. Sarà accaduto qualcosa ai suoi genitori. Dopotutto è la loro azienda, quella che sta bruciando. Portala a casa dalla zia, poi raggiungimi a Monteferro.

Non mi sorpresi che lo zio mi volesse con lui in quel posto infernale, ogni spavento era buono per farmi tornare la voce.

*****

Era ancora giorno quando arrivai a casa. Cetti e la zia erano sveglie.

Quando Cetti vide la piccola Ferri, le disse:

– Ciao Maria, giochiamo?

La piccola Maria le diede la manina e andarono nella stanza dei giochi.

La zia mi riferì che a svegliare il paese era stato Saro il seppellitore dei morti ammazzati. Scarrozzando per la via principale col suo carro istoriato, urlava come un forsennato i suoi hiààà hiàààà. Quando in molti si furono riuniti in strada, lo videro piombare con quel carro maledetto verso Monteferro. Presero a loro volta i cavalli e gli vennero dietro. Ma all’imbocco del sentiero Saro si arrestò, sputò per terra e urlò ripetutamente la sua solita sentenza di morte: “La morte a te, e l’angelo a me!”

Tutti alzando lo sguardo videro delle colonne di fumo; i primi bagliori dell’incendio sembravano fuoruscire direttamente dalle bocche delle Caverne. La zia fu informata di questo dalla servitù che era andata sul posto ed era ritornata scossa dall’episodio.

Tutti ad Aci Sant’Antonio temevano gli schiocchi di frusta di Saro. Quando con il suo carro si arrestava in qualche parte, per la gente del posto era tutto un agitarsi. Occhi improvvisamente vagavano alla ricerca di qualcosa, nasi fiutavano nell’aria una strana elettricità, orecchie percepivano il galoppo eterno della morte. In tale occasione lo spirito folle di Saro diventava cattivo. Sputava in terra con disprezzo, puntava i suoi occhi cisposi in direzione di una determinata casa e urlava:

 “La morte a te, e l’angelo a me!”

Era un messaggio funesto porto a chi, già tremante e con l’alito della morte in corpo, stava dietro la porta di quella casa.

A Saro erano affidati soltanto quei poveri corpi martoriati degli ammazzati che gli altri beccamorti rifiutavano, non si sa bene per quale motivo.

Lo zio mi raccontò che una sera, nel sentire la voce di Saro era diventato verde come l’aglio. Fortunatamente zia Lella e Cetti erano andate a far visita ad alcuni conoscenti e fu risparmiata loro quella scena.

Lo zio disse che le frasi di Saro non le dimenticherà mai finché campa. Attraverso le mura la voce gli era arrivata come una frustata: cupa, contornata da una vibrazione concentrica, come un lamento espulso dalle viscere dello stomaco. Una bestia, quel Saro. Ma da lì a poco lo zio si sarebbe reso conto che il messaggio di morte non era per lui ma per il vicino di casa, il commendator Angelo Mezzasalma.

La figlia di Angelo giaceva infatti morta ammazzata sul carro di Saro; un lenzuolo bianco la ricopriva. Un contadino ne aveva trovato il cadavere nelle campagne di Vasadonna. Sollevando il lenzuolo, lo zio si accorse che la pelle del cadavere era secca e aveva un colorito giallo, come se fosse privo di sangue. Il vestito era completamente fatto a brandelli, per le coltellate disseminate al corpo.

Il seppellitore dei morti ammazzati nell’occasione era scortato da due soldati a cavallo incaricati a esibire il cadavere per il riconoscimento da parte dei parenti. Una vera tragedia per il commendator Angelo Mezzasalma, che del corpo dissanguato e martoriato dalle lame di non si sa quanti coltelli, dovette riconoscere quello di sua figlia.

Un tipo strano, Saro. Una volta m’incrociò con il suo carro alla collina della Consolazione. Stavo raccogliendo more con Cetti e lui passò per lo sterrato che sembrò un terremoto. Ci piantò sul muso i suoi occhi vuoti. In testa teneva un cappellaccio che gli copriva parte della fronte, ma la luce violenta del mezzogiorno mi mostrò ugualmente un viso sporgente e privo di carne. Non fosse stato così magro, avrei notato una qualche espressività, e il fatto stesso che non s’accorgesse di quanto funesto lo rendeva quel suo cappellaccio, del bearsi della sua magrezza da spiritato, poteva essere un segno che era un tantino folle. Come folle era quel suo carro funebre dalle sponde istoriate dalle gesta di arcangeli in spade sguainanti, e delle scene di morti danzanti nella buia notte che attirano i vivi nel loro cerchio…

Anch’io ebbi l’occasione di sentire l’urlo di Saro. Avevo appena scoperto il corpo di Pinuccio sul letto di casa sua, quando l’urlo si era levato dal deserto dello stradone e mi aveva destato da una specie di paralisi che mi aveva colto rinvenendo il cadavere. “La morte a te, e l’angelo a me” aveva tuonato Saro. Poi era scomparso.

Scrissi alla zia che anch’io avevo notato le colonne di fumo proveniente da Monteferro e che per curiosità ero andato a vedere cosa fosse successo. Per strada avevo incontrato Maria e l’avevo presa con me. Scrissi anche che lo zio voleva che io ritornassi a Monteferro.

– Ma tu a quell’ora dove stavi andando? – mi domandò.

– A fare un po’ di corsa.

Lesse la mia risposta e mi accompagnò alla porta.

Sull’uscio, ci raggiunse una vocina flebile:

– Cee…saa…re.

Era la piccola Maria che era uscita dalla stanza dei giochi e ci aveva seguito. Si sforzava di dirci qualcosa.

 – Cesare? – disse la zia. – E chi è Cesare?

 – Caa…

– Caa… che cosa?

Il cavallo! Si riferiva al suo cavallo.  Ricordavo di averlo visto attaccato al calesse, lassù a Monteferro. Voleva che lo salvassi dall’incendio.

A gesti cercai di far capire alla zia che avevo compreso cosa volesse dire Maria. Ma la zia non capì nulla, e allora dovetti scriverglielo. A Maria espressi a gesti che le avrei riportato il suo cavallo. Lei sembrò tranquillizzarsi e mi sorrise.

Giunsi a Monteferro che il cielo si era quasi del tutto coperto di nuvole. I pompieri avevano appena finito di domare l’incendio. Le fiamme avevano incontrato i serbatoi d’acqua nel reparto abbeveratoio e la struttura perlopiù in calcestruzzo impedì il fuoco di avanzare verso gli altri reparti.    

Saro il seppellitore dei morti ammazzati si era piazzato col suo carro davanti all’ingresso del capannone. I suoi occhi neri e vuoti erano in sintonia con gli usci scuri delle Caverne che dominavano in alto.

Erano stati rinvenuti dieci corpi carbonizzati, nove uomini e una donna.

Si stava operando l’identificazione delle salme, in un silenzio irreale. A mano a mano che qualche indizio portava al riconoscimento del morto, il suo nome era scandito alla folla che, trattenuta dai soldati, si era accalcata ai bordi del recinto.

– Santo Ferri! – disse la voce.

Non doveva essere stato difficile riconoscere il corpo di quello sgorbio, considerando che si portava appresso la gobba del diavolo.

– E questa è mamma sarta – aggiunse la stessa voce. 

Fu riconosciuta dal dente mancante e uno per metà rotto sul davanti.

– Questo è padre Virgilio, non c’è dubbio – era lo zio che lo aveva identificato.

Ecco di chi era la voce che mi sembrava di aver riconosciuto. Il parroco era un membro della setta! Lo zio gli trovò al collo la croce d’oro che spesso portava con sé e che riconobbe subito, ma l’aveva appesa a testa in giù.

– E questo è il maresciallo delle guardie! – dissero ancora.

Lo avevano riconosciuto da ciò che rimaneva dell’uniforme.

– Ma cosa diavolo facevano alla scuderia così presto? – disse lo zio.

Nessuno seppe rispondergli.     

Spenti gli ultimi fuochi, le guardie si portarono dentro il capannone e videro ciò che restava dell’altare domestico. In uno dei calessi parcheggiati fuori, un soldato rinvenne dei cappucci e delle casacche con ricamate davanti e di dietro delle croci bianche capovolte. Non ci volle molto a capire che quei dieci morti tra le fiamme stavano eseguendo un rito satanico. L’altare doveva servire allo scopo. In qualche parte si trovarono dei coltelli. Lo zio li esaminò con cura. Confermò al capo della polizia che le lame di quei coltelli erano compatibili con la tipologia delle ferite riscontrate sul corpo di Pinuccio e della figlia del commendator Mezzasalma. Era stato rinvenuto inoltre un ceppo simile a quelli anticamente adoperati per la decapitazione o amputazione di arti, poi altri strumenti di tortura e delle immagini riprodotte su tele raffiguranti il diavolo con la faccia di una belva e adepti in casacca con la croce bianca capovolta al petto.

Non vi era alcun dubbio, tutti erano seguaci di una setta satanica, dediti probabilmente a sacrifici umani. Fra i morti carbonizzati la voce scandì anche i nomi di Francoise la serpe e Carmelo Calcamo detto il calcato. Erano stati loro dieci, componenti della setta satanica, a uccidere Pinuccio e la figlia di Angelo Mezzasalma.

Metà dei corpi furono caricati sul carro di Saro. Era necessario fare due viaggi. Quando fu pronto, Saro s’avviò scortato dai soldati. Aveva sempre quell’aria da morto vivente stampata in faccia.

In quel momento lo zio mi disse che la forza debole che aveva sferrato le coltellate a Pinuccio doveva essere quella di Maria Ferri.

– La bambina non c’entra nulla – dissi stupendomi io stesso di poter parlare. – È tutta colpa di quel nugolo di pazzi!

– Evviva San Cristoforo! – esultò lo zio abbracciandomi. – Finalmente ti è tornata la favella. Ci voleva un incendio e questa storia maledetta. Ero stanco di avere un cane per nipote che mi abbaiava per casa. Ma… tu che ne sai della bambina?

Gli raccontai tutto, in un fiume di parole. Gli rivelai anche che quei pazzi volevano sacrificare Cetti. Per poco allo zio non gli venne un colpo.

– Una cosa che non ci si può credere! Un religioso e un maresciallo delle guardie tra gli assassini. Chi l’avrebbe mai potuto sospettare!

Lo zio era preoccupato per me. Avevo ucciso degli uomini.

– Non temere Alfiuccio, hai fatto la cosa giusta. Tanto, quei maledetti sulla forca sarebbero comunque finiti.

Non gli rivelai ciò che tenevo nel cuore in quel momento. Come spiegargli che non sentivo alcun rimorso per aver ucciso delle bestie demoniache?

Cercai Cesare, il povero cavallo dei Ferri. Era ancora nel posto in cui l’avevo visto. Quando mi avvicinai, l’animale ciondolò la testa, come se mi avessi riconosciuto. Lo staccai dal calesse e lo legai al mio. Dimostrò di essere contento di venire con me.

Povera Maria, cosa aveva dovuto subire. Abusata dai suoi genitori e costretta a infliggere coltellate alle vittime.

Leggerle la felicità sul volto quando vide Cesare, mi ripagò in parte della tristezza che provavo per lei. Accarezzò la testa del cavallo, poi venne ad abbracciarmi una gamba. Le lacrime le scendevano silenziose.

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