VAPORE di Mariachiara Marino

Con occhi minuti Alfredo leggeva il foglio del quotidiano stampato fitto a piccoli caratteri, aveva già scartato le pagine sportive, di economia e di spettacolo, per la cronaca, invece, aveva una sorta di predilezione.

Con un’espressione di massima concentrazione dipinta in viso, sottolineava ed appuntava ai bordi delle colonne i tratti salienti di questo o quell’evento.

Quando gli occhi si stancavano per lo sforzo, prendeva a ritagliare con cura articoli destinati ad essere appesi in ordine sparso lungo le pareti della sua stanza affinché lo ispirassero.

Erano passati dei mesi da quando aveva preso a dedicare ogni ora della sua vita a quell’esercizio, eppure la pagina destinata al suo scritto giaceva ancora immacolata alla sua sinistra, la teneva lì in modo che gli ricordasse che andava riempita di parole.

Sbuffi irregolari di fiato, avvizzito dal vapore scuro della sua sigaretta, facevano capolino continuamente nell’atmosfera tetra di quell’angolo di mondo. Fumare lo rasserenava, il fatto di avere tra le labbra qualcosa da suggere gli ricordava il sapore della vita inconsapevole, quando, da ignaro lattante, succhiava voracemente una bevanda al gusto di sopravvivenza dal seno materno.

Aveva incolonnato con un’insolita cura ciascuno dei giornali già letti, il cumulo aumentava di giorno in giorno, già le prime copie incominciavano ad ingiallire, ma d’altro canto tutto in quell’ambiente era caduco ed ostinatamente maldisposto verso l’eternità.

Ogni tanto si soffermava a fantasticare sul suo scritto, ne immaginava i grossi caratteri che avrebbero composto il titolo sulla copertina di carta rigida tinta per l’occasione di un rosso cupo, e poi subito più in basso il suo nome a chiare lettere.

Il suo nome! Questa tra tutte era la cosa che più lo angustiava. Non era di certo un uomo intenzionalmente disposto alla gloria, aveva sempre preferito, al contrario, raccogliere la sua vita al sicuro tra le mura di una stanza lontana da sguardi indiscreti.

Il prodotto che intendeva comporre di certo non era destinato ad essere condiviso con il resto della comunità, quella sarebbe stata, infatti, esclusivamente una dimostrazione di abilità da riservare a sé stesso e nessun altro. Avrebbe di certo dovuto contrassegnare il risultato del suo sforzo letterario con il suo nome perché gli appartenesse, ma cosa sarebbe accaduto se casualmente il suo scritto fosse finito nelle mani di sua madre?

Già si figurava la cieca faziosità di quella genitrice orgogliosa che lasciava leggere brani a caso ad ognuna delle sue clienti con gli occhi baluginanti di commozione, tra il generale imbarazzo di chi in qualcosa di mediocre non trova null’altro che la comicità di chi crede il contrario per principio e non per concretezza.

In forma inconscia aveva sin dall’inizio cercato di inventare uno pseudonimo, ma qualsiasi nome a cui pensasse risultava in definitiva fittizio, non riusciva ad ingannarsi se pensava che l’autore potesse chiamarsi Ettore Finestra, piuttosto che Gregorio Paralume, o Sandro Seggiola, ma d’altro canto Alfredo Gadaldi risultava fin troppo reale.

Poi, del resto, quanti erano stati gli Alfredo che avevano scoperto a cosa fosse stata utile la propria esistenza?

A tal proposito arraffò con insolita rabbia un libro di storia che giaceva immobile nella stessa posizione da anni sul suo comodino, si fece coraggio e fece scorrere il polpastrello lungo l’indice analitico … A … Alf … Alfredo il Grande.

Eccone uno!

Si interessò a cercare la pagina che ne raccontava la biografia e scoprì che questo signore inglese vissuto in epoca medievale era stato uno stimato condottiero, aveva respinto infatti i barbari danesi dal territorio britannico, ed aveva avuto, addirittura, il tempo di essere un filantropo, collaborando, a quanto pare, alla stesura di un importante codice su cui si raccolsero i primi rudimenti della storia della sua gente, meritandosi così l’epiteto de “Il Grande”.

Se questo grande Alfredo avesse potuto rivedere oggi la risultanza delle sue gesta, avrebbe di certo compreso l’importanza della sua esistenza e del suo contributo, quello sì che rappresentava un bell’esempio di uomo che aveva meritato l’eternità.

Certo il nostro di Alfredo, ben più modesto e dunque di più dimesse intenzioni, si poteva ritenere la massima antitesi di questo bel personaggio vittorioso, ma la cosa non lo infastidiva, anzi, in un certo senso lo rincuorava il fatto che, esistendo già un Alfredo detto il Grande, lui non fosse costretto a ripetere la fama che accompagnava quel nome.

Da qualche tempo aveva sicuramente sviluppato una visione dell’economia della vita piuttosto elementare, a suo parere non era necessario ottenere la notorietà, così come non era necessario rivelarsi unici ed irripetibili, era piuttosto doveroso agire nel rispetto delle proprie inclinazioni, solo così si sarebbe stati parte del tutto.

Durante le sue speculazioni proponeva a sé stesso degli esempi piuttosto calzanti per spiegarsi questo concetto, quasi sempre era sufficiente pensare al corpo umano, cosa sarebbe successo se qualcuna delle cellule dei tessuti vitali piuttosto che svolgere la propria utilissima funzione avesse, per vanità, deciso di prevaricare sulle altre per suscitarne, egoisticamente, l’apprezzamento? Ogni cosa sarebbe andata in malora, si sarebbero di certo generati malanni incurabili e si sarebbe alterato il naturale equilibrio della vita.

Ed egli? Quale era dunque il suo speciale talento? Delle cose della vita era assolutamente inesperto, incapace di produrre alcunché con le mani, non aveva fatto altro che oziare per trentatré anni della sua vita, aveva coltivato un giardino interiore che non aveva prodotto frutti, non aveva mai lavorato, non si era sposato e non aveva proliferato, aveva solo di rado fissato con concupiscenza un cielo notturno che era più un affresco esoterico che una realtà concreta della quale sapesse spiegarne i meccanismi, poi, solo per una volta, con in mano una penna aveva avvertito una folgorazione o piuttosto un insolito senso di onnipotenza ma, dato il decorso del suo progetto, incominciava a credere che fosse stata soltanto una fugace suggestione.

Da un anno leggeva righe su righe, possedeva migliaia di storie, omicidi, rapine, potenti corrotti dal denaro e gente comune corrotta dalle proprie irrealistiche ambizioni, tutte le miserie del tempo improvvisamente gli appartenevano, erano tutte sue gradite ospiti in quella vuota stanza.

Avrebbe potuto comporre un’enciclopedia delle brutture umane ove i protagonisti sarebbero stati tutti coloro che godono di un’effimera celebrità sulle prime pagine di ogni giornale per poi essere dimenticati, e rimpiazzati, il giorno seguente; eppure ogni volta che posava la punta umida della penna sul foglio era come se le parole sfiorissero, ciò che scriveva diventava la pallida cronaca della cronaca già letta sul quotidiano.

Forse Alfredo era un essere incapace di provare empatia e dunque manco della sensibilità eccezionale che è propria dei poeti, ma non si diede per vinto, continuò imperterrito a collezionare articoli e storie tanto che ormai le colonne di carta ingiallita avevano raggiunto il livello del soffitto e non c’era più posto su nessuna delle pareti per poter appendere ulteriori stralci malconci di carta ammuffita.

Ad Alfredo capitava spesso di arrabbiarsi con sé stesso per aver dato ascolto a quell’idea irrazionale, ormai odiava l’odore della carta stampata, lo trovava nauseabondo specie ora che si combinava indistintamente con il puzzo aspro del tabacco, si chiedeva se forse non avesse fatto meglio a decidere di umiliare quella carta straccia utilizzandola per farci un grosso fantoccio di cartapesta.

Eppure, mai fu capace di desistere da quel suo progetto pur ammettendone l’assurdità, quell’opera di collezionismo era diventata come un gesto involontario, meccanica come il pulsare del cuore. Non ricordava quasi più come fosse la sua vita prima che avesse imposto a sé stesso quell’obiettivo e, sebbene l’ottimismo iniziale si fosse man a mano sopito, erano comunque passati dieci anni e quell’abitudine si era radicata al punto da non poterla più alterare.

Ormai le pile dei giornali cumulate in un decennio coprivano ogni metro quadrato di quell’angusta camera, lasciando solo un impervio passaggio che conduceva dalla porta di entrata al letto, dal letto allo scrittoio e da quest’ultimo al minuscolo balcone.

Anche l’atteggiamento di Alfredo in quegli anni era cambiato, quello scanzonato indifferente, disinteressato alle vicende del mondo nella stessa misura in cui il mondo si disinteressava alle sue, aveva ceduto, aveva consentito l’accesso alle persone nella sua dimensione misteriosa, era stata una scelta sofferta sebbene quella gente si fosse introdotta non nella forma fisica ma in quella immaginaria.

Adesso avvertiva il bruciore dovuto alla consapevolezza che dopo una decade di sacrifici e di aspre lotte con sé stesso l’amato scritto non fosse stato dato alla luce, il foglio immacolato permaneva nella medesima posizione iniziale, adesso stava lì immobile proprio con l’intento di schernirlo, il suo vuoto contenuto era tanto crudele come se ci fosse stato scritto a caratteri cubitali:

“Alfredo è un inetto!”

Sentiva il sapore amaro del fallimento sopraffarlo.

Si alzò dalla seggiola con espressione corrucciata.

Si affacciò dal suo piccolo balcone, era una splendida notte di primavera, l’aria profumata era dolce messaggera dell’arrivo imminente dell’estate, notò fiducioso che lo sfavillio impassibile della Via Lattea si spiegava ancora maestoso davanti ai suoi occhi, gli astri cambiavano continuamente posizione nel cielo ma, nonostante il tempo passasse, sembrava non invecchiassero mai.

Di scatto, come se avesse un crudele inseguitore alle calcagna, ripercorse l’angusto corridoio fino allo scrittoio.

Prese in mano la penna.

Sollevandola lentamente sentì tutto il peso della sua inadeguatezza.

Prese il foglio immacolato. Vi passò sopra il palmo di una mano come a volerne cancellare l’infamante contenuto mai scritto.

Si fermò qualche istante a riflettere. Incominciò di getto a scrivere.

Non gli importava più di niente, nessun avvenimento meritava di dimorare su quella carta, nessuna novella, nessun personaggio, nessun eroe, stavolta lasciò che soltanto il suo inconscio si occupasse di dettare le parole.

Come in estasi completò il suo compito, le righe apparivano ordinate e regolari, la calligrafia era chiara e leggibile, depose la carta in una specie di piccolo scrigno metallico in un angolo sulla scrivania, al riparo da sé stesso quasi ne temesse il contenuto.

Accese l’ennesima sigaretta, gustò il sapore dolce delle prime tirate e, quando fu sazio, come d’abitudine, appoggiò il mozzicone, straziato dalla stretta delle sue dita nervose, in un cantuccio sullo scrittoio.

Esausto, Alfredo si gettò sul suo letto. Insolitamente prono, come se fosse stato colpito a morte con un fendente nelle reni, si abbandonò con tutto il peso del suo corpo esanime sul letto. Si addormentò profondamente mentre la piccola brace della sua sigaretta, disgraziatamente rinvigorita, decise di attaccar briga con un angolo di carta fatalmente fuori posto.

Rachele Gadaldi, la madre di Alfredo, quella notte si levò di scatto dal letto destata da un inconsueto odore di bruciato.

Aprì la porta e si affacciò alla soglia, oltre il battente nel lungo corridoio imperava una nebbia massiccia e minacciosa, involontariamente la respirò, le venne da tossire, quasi soffocò. Si mise un fazzoletto su naso e bocca e corse in strada, urlò con tutta la voce che le rimaneva in corpo, perse conoscenza.

Quando il mattino dopo tornò in sé, le dissero che si era sviluppato un incendio, le fiamme avevano divampato a lungo, ma gli addetti erano riusciti infine a domarle.

Con calma entrò nella camera sfigurata dall’eccessivo calore ed annerita dall’impatto violento con il fuoco, cercò Alfredo, ma le dissero che di lui non vi era traccia, l’uomo sembrava essersi dileguato assieme al fumo copioso.

L’ambiente era surreale, adesso appariva vuoto in maniera drammatica.

 Nell’aria l’odore di oggetti riarsi ed un silenzio mortifero, rotto solo a sprazzi dai commenti fuori posto di curiosi visitatori.

Le cadde lo sguardo sullo scrittoio dove vide quell’oggetto inconsueto, ne sollevò il coperchio e li dentro, miracolosamente scampato alle fiamme della notte precedente, rinvenne un foglio e lo mise frettolosamente in tasca per nasconderlo, solo a sera se ne ricordò ed in piena solitudine lo lesse.

 “Vivere! Chi l’avrebbe mai detto che equivalesse a guardare il proprio riflesso nella liscia superficie di uno specchio e riconoscersi a stento? Chi avrebbe mai potuto predire che il tempo non sarebbe più stato un fedele alleato, ma piuttosto un tiranno che costringe alla forzata convivenza con i suoi giannizzeri, le ore e i minuti? Il tedio adesso è il boia che stende il suo lurido tentacolo spingendomi sull’orlo di un baratro sterile, improduttivo, ed ozioso. Cosa so fare? So dire tante cose, ma non sono capace di farne nessuna. Queste povere mani, congegnate per servire il mio modesto ingegno, non sono capaci, ormai, di rispondere alla loro funzione. Paralizzato! La mia intelligenza è in trappola ed io l’offendo ogni giorno con questa grama esistenza. Se fossi stato in grado di sfruttare l’innato potenziale delle mie dita, del mio pollice opponibile, forse a quest’ora non sarei così intorpidito, confuso e stanco. A volte mi sento come se mi somministrassero un farmaco a base di soddisfazione, ma mi ricredo ogni volta che con lucidità studio il risultato delle mie vuote elucubrazioni. Sono un mediocre, uno tra tanti, così com’ero uno tra tanti quando fui concepito, Io, perché ce la feci e nacqui? Quale prezzo per poche boccate d’aria? Adesso l’unica scelta è tramutarmi in vapore, sarò un’entità amorfa, parte di un tutto che trascende il comune criterio dell’esistenza, solo allora, libero dalla prigione di un corpo incapace, avrò scelto e trovato la mia finalità.”

Non pianse neanche una lacrima, Rachele.

Procurò il quotidiano che riportava in prima pagina la notizia sciagurata della recente disgrazia, nascose furtivamente lo scritto balordo di Alfredo tra le stesse pagine del giornale per poi seppellire il tutto in fondo ad un cassetto.

Girando la chiave nella serratura prese solo il tempo necessario per dedicare un pensiero a quella persona sofferente provando un’improvvisa pena per quello sconosciuto che era suo figlio, poi, imbracciati i ferri del mestiere, riprese febbrilmente a lavorare.

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