“… È SOLO MUSICA, ma senza amore e amicizia è nulla …” di Pier Luigi Nanni

Foto di Chen da Pixabay

PROLOGO

Il fumo si leva lento in spire sempre più in alto, mentre sullo sgangherato palchetto un gruppo mal assortito di bianchi, neri e gialli dagli inverosimili e disparati abbigliamenti e acconciature sta suonando in modo ancestrale, meravigliosamente bene; sta suonando direttamente per lui, che da lassù tutto vede, forse.

Mi guardo attorno, un vecchio girasbriluccica, probabilmente rapinato da una desolata e sperduta balera che in passato avrà conosciuto certamente tempi migliori, mi sorride con le sue migliaia di facce, incendiando la sala di colori intensi ed elettrizzanti.

Lentamente il torpore mi conquista, ed è una strana e piacevole sensazione.

Sono cullato dallo swing e dalla suadente voce della vocalist, una ragazza giapponese:  questa mi trasporta in un mondo lontano anni luce dalla triste e sconclusionata esistenza che mi trascino dietro da tanto, troppo tempo.

L’angelico jazz percorre sinuosamente i miei pensieri fino a bussare insistentemente alla porta onirica della consapevolezza: a malincuore, ma coscientemente, apro.

Accidenti, ma come suonano? Celestialmente…

Tra un impegno e l’altro, è sceso, finalmente, pure lui a sentirli e si è seduto sulla sfilacciata poltroncina: mi sono girato ed era lì, in mano un tumbler colmo di una brodaglia incolore guarnita di frutta e dal solito avvilente ombrellino di carta.

Vestito di bianco, la folta barba argentea, la consueta luminescenza che aleggia sopra di lui, il libro, il pastorale, l’armamentario d’ordinanza al completo, insomma, avvolto nell’immancabile ultra terreno alone luminescente, tant’è che, sorpreso, ho fatto un salto sulla poltroncina.

«Babbo Natale!».

Perplessità assoluta, per cui, d’ora in poi, solo acqua tonica.

Ma come suonano…

– I –

Non esisto

Amici miei, sarà opportuno che mi presenti prima di continuare a scambiarci quattro chiacchiere amichevoli, o almeno spero, in quanto un sostegno morale mi è necessario.

Mi chiamo Frederic, Freddy per gli amici e FPB per tutti coloro che risalgono al passato, dove FPB sta per Frederic ‘Pilastro’ Blondevitz, emigrato ancora in fasce da uno dei tanti scombussolati paesi dell’est dopo il crollo della cortina di ferro.

Sono semplicemente uno dei numerosi egocentrici frequentatori di questo squallido locale.

Ho trovato un angolino dal quale posso osservare il mondo disturbandolo il meno possibile, e con un bicchiere di coca, senza limone né ghiaccio, ma sempre mezzo pieno, ascolto le band più scalcinate che questa città può ospitare: è il meglio della vita se si è un musicista di jazz di una famosa band che, inevitabilmente, si è dissolta come sporca neve al caldo sole…

La musica mi sta entrando in circolo e l’ambiente, complice, fa il resto.

Mi si scioglie la lingua.

Impiego qualche minuto per rimetterla al suo posto, ma va bene così, non ho altro da fare oggi, né domani, né dopodomani: in altre parole, non ho assolutamente nulla da fare per la restante misera esistenza che so mi attende ancora, forse…

Squallido vero? Ma c’è di peggio, o almeno credo.

Il problema della musica jazz è che finisce.

Si è poi sottoposti a estenuanti pause tra una parte e l’altra.

Bisognerebbe imporre un ciclo continuo alla musica fino all’esaurimento fisico dei musicisti e, vi assicuro, alla maggior parte di loro non dispiacerebbe affatto.

Ma silenzio, ragazzi, la musica è ricominciata e spero sia altrettanto fantastica.

Solo ora mi rendo conto che la coca è dannatamente e disgustosamente annacquata, che schifo di locale.

Mi è appena passata vicino la cameriera.

Carina, ed è un vero peccato che non possiate vederla.

Un ragazzo, habitué di questo sordido bistrot, porta la propria bocca all’altezza della sua guancia, le posa una mano sul fianco e sussurra, forse, anche dolci parole.

Pare di sì, poiché lei sorride annuendo, e successivamente annota diligentemente qualcosa sul proprio sdrucito taccuino, come una novella vigilessa.

Poi fugge, nel ruolo di fata metropolitana, pronta a soddisfare ogni desiderio, non solo culinario.

Avete notato la tendenza che hanno gli uomini maturi negli ambienti molto rumorosi, quella di appoggiare una mano sul fianco dell’interlocutore, spesso di sesso opposto, e sprofondare la propria testa fra i di lei capelli?

Credo sia un atteggiamento estremamente affascinante e incomprensibile, poiché sono convinto che sia un gesto universale.

Così come presumo che ci sia sempre qualche scemo che applaude ogni volta che si rompe un bicchiere o cade un piatto.

La musica, struggente, carezzevole e decisamente accattivante, si è ancora fermata, di-chiarando così la consueta e sospirata pausa.

Ascoltando i discorsi della gente attorno a me, scopro che sono tutti, o quasi, a loro volta musicisti, o almeno si spacciano per tali, e io mi crogiolo nell’assoluto anonimato.

Una rossa mozzafiato che mi ha puntato si fa largo verso il mio tavolino tra il pubblico appoggiato al banco bar che la spoglia con gli occhi.

Io, invece, stasera non ho voglia di incontrare nessuno.

Uso la tecnica del camaleonte: mi mimetizzo con l’ambiente, ma pare che la vernice ocra che ho usato per simulare quella del muro a pietra vista non sia abbastanza efficace, così la rossa si siede al mio tavolo.

«Ciao FPB, come al solito ti vedo tutto solo».

Un tuffo al cuore.

Da tanti, troppi anni, più nessuno mi chiamava più così.

«Ci conosciamo? Non credo. Cosa vuoi?».

«Solo fare quattro chiacchiere con te di musica e del tuo fu brillante passato».

«Non sono in vendita, baby, per cui alza il tuo bel culetto e vallo a mettere da un’altra parte, sono stato chiaro?».

Mi guarda con un’espressione perplessa con i suoi immensi occhioni verdi.

Nel frattempo, i musicisti ritornano fiaccamente sul palco e altrettanto pigramente raccolgono gli strumenti dai cavalletti.

Lentamente la ragazza si alza, si liscia la stretta gonna che la fascia come un guanto che si era abbondantemente alzata, mettendo in mostra due splendide e lunghe gambe e fa per andarsene.

«Hai ragione, non sei tu l’uomo con le palle che sto cercando!».

Le afferro un braccio, bloccandola.

La musica ha ricominciato a scorrere e volare nell’aria, il suo profumo mi inebria: l’attiro a me e con un tremulo filo di voce le dico di tornare a sedersi.

«Parliamone…».

Mi sembra poco convinta, poi ci ripensa e si siede.

«Cosa? Non ti sento con tutto questo chiasso».

Adesso ricordo perché vengo sempre qui in compagnia solo di me stesso.

Sprofondo il viso fra i suoi fiammanti e setosi capelli, mentre il fisico, statuario e caldo, produce in me strane reazioni chimiche.

Respiro profondamente per ritrovare la voce e una parvenza di calma e sicurezza, ma è solo apparenza.

Iniziamo a parlare e la sua voce, passionale e roca, mi avvolge completamente.

– II –

Un passato

Sono qui, ancora vestito, inquieto e disteso nel mio scompigliato e informe letto.

La pioggia bussa violentemente ai vetri della finestra pregandomi di farla entrare, invidiosa del tepore della stanza.

Continuo a rigirarmi sulle coperte sgualcite che avrebbero bisogno anche di una lavata, pensando alle parole della ragazza.

Com’è iniziato tutto questo?

Una volta, in un passato neanche tanto remoto, non ero così.

La colpa di tutto, come raramente accade nelle migliori famiglie, ma sempre in quelle peggiori, è da ricercare anche, e non solo, nella mia infanzia.

Mi trovavo in prima media, ormai alla fine dell’anno scolastico e la professoressa ci diede un tema dal titolo ‘Descrivi l’estate che vorresti’.

Mi preparai bene, anzi, molto bene, come non mai, poiché l’argomento era sentito e vivo nel mio essere.

Andai a fare una bella e sana passeggiata in campagna per cercare l’ispirazione, quando vidi un meraviglioso campo tutto dipinto di rosso: eccola, finalmente, l’idea, meravigliosa e perfetta.

La curiosità si sa, è dei bambini, ed io mi fiondai come un piccolo reporter in calzoncini corti.

Il campo era cosparso di pomodori schiacciati, in buona parte marci.

Feci un tema meraviglioso in cui, per l’appunto, descrivevo la vicenda nei più piccoli e minuti dettagli con una realtà inconsueta.

Certo, anzi, convintissimo di un successo letterario, se non addirittura del Premio Pulitzer, o, addirittura, del Nobel per la Letteratura, aspettai il responso: la professoressa ritenne invece il mio lavoro insufficiente.

Moralmente a pezzi, avevo comunque accettato la nefasta valutazione dando una giustificazione ortografica al mio fallimento.

La professoressa volle leggere il tema che a suo avviso considerava il migliore: quello di una mia compagna, tale Lory, pieno di gnometti e fatine che, in pieno tema ‘Fantasia’ hollywoodiano e Walt Disney, dipingevano il mondo di brillanti colori oro e argento.

Così facendo, Lei, la signora Selleri, la strega insensibile delle realtà umane di tutti i giorni, pugnalò al cuore il mio truce realismo: è probabile, anzi, certamente colpa sua se sono diventato un musicista di jazz.

Al solo ricordo, una lacrima mi solca il viso, o forse è la pioggia che finalmente è riuscita a vincere la sua battaglia ed è entrata.

Mi alzo, ormai anche il sonno mi ha abbandonato.

Prendo l’impermeabile ed esco, ho una persona, un insignificante e indegno essere umano, da incontrare, che spero possa darmi delle risposte a quanto mi frulla in testa.

– III –

Strane amicizie

La città mi accoglie con intimi suoni, colori rigorosamente bianchi e neri come un’immane scacchiera in cui noi, poveri esseri, non siamo altro che inconsapevoli pedine da giostrare secondo il capriccio di qualche essere superiore.

Da lontano, mi arriva il rombare della sopraelevata, o forse è un tuono, anche se in tanti anni che vivo qui non l’ho mai capito.

È difficile vedere il sole da quaggiù, e, a dire il vero, anche la sopraelevata.

Svolto l’angolo e sono sul viale che fiancheggia i giardini pubblici: fiori, più o meno colorati, mi si propongono, molto gentilmente, da attività collaterali alla musica.

Amo questa intrigante, godereccia e lussuriosa città.

Rifiuto cortesemente, poiché ho urgenza d’incontrare una persona.

Una brillante e sgommante Jaguar blu mi sfiora per fermarsi poco oltre a raccogliere due giovani graziose e poco vestite fatine, dai lucenti e alti bianchi stivali di finta pelle.

M’immergo in pensieri intimi e reconditi.

Probabilmente ora c’è un lardoso ciccione felice in più su questa terra.

Almeno per altri sei mesi, poi l’ardua sentenza, la nemesi della libido, la spada di Damocle che pende su ognuno di noi, in quanto la peste del secolo si affaccerà immancabilmente.

E a piangere insieme al ciccione, ci sarà probabilmente anche un’ingioiellata signora che non avrà avuto possibilità di scelta sul proprio destino.

La vita è così, oggi un gioviale grassone banchetta sulle sventure degli altri e domani, neanche tanto lontano, un esercito di virus farà lo stesso di lui.

Intendiamoci, non ho nulla di particolare contro la professione più vecchia del mondo, e ancor meno contro abitudini sessuali contrarie alla buona creanza.

Io stesso non sono mai riuscito ad assimilare a pieno i concetti di affidabilità, serietà e fedeltà, in quanto credo si adattino meglio alle macchine che agli esseri umani.

Quello che non sopporto sono i ricchi e vecchi ciccioni in Jaguar.

Se si fosse fermato e sceso per aiutare un’attempata e cieca suora ad attraversare la strada, l’avrei criticato comunque.

Svolto ancora e supero la marmorea Piazza degli Eroi che commemora le migliaia di caduti delle tante e inutili guerre del passato, ed eccomi nella città vecchia i cui storici palazzi del primo millennio sono assolutamente indifferenti alla miseria umana del solito viavai di tutti i giorni.

Ha ricominciato a piovere, ma qui i portici imbrattati e scalcinati, che hanno visto la grandezza della città in secoli lontani e certamente dimenticati, proteggono l’affaticato viandante.

In lontananza, un’ambulanza grida la sua fretta, mentre rotanti luci blu di una pattuglia dell’ordine costituito rincorrono velocemente un’auto in fuga: tutto nella norma nell’anormalità della vita di tutti i giorni.

Pochi passi e non sono più solo, numerosi signori mi si avvicinano proponendomi gli articoli più svariati: dalle biciclette a residuati bellici ancora perfettamente funzionanti, al solito ciarpame inutile e fatiscente, rose ormai appassite a vere e proprie bombe a mano, probabilmente rubate alla vicina guerra.

Tutti, comunque molto socievoli e gentili, se compri qualcosa, altrimenti stizzosi e inviperiti.

Amo questa città, ma ecco, nell’ombra di un androne, finalmente vedo il mio informatore.

«Ciao Franz, mi devi ricambiare un favore!».

Franz è un tappo gonfio e molliccio, ex mercenario, reduce da guerre sparse per il mondo ormai dimenticate.

Devono averlo gassato molto bene laggiù, perché la pelle ha assunto un improprio e alquanto sospetto colorito giallo-rossiccio con macchie grigio scuro.

Anche i capelli e gli occhi sono di una strana sfumatura verdolina, come l’acqua stagnante e putrida di una palude primordiale: non è certo un bel vedere, ma quando se ne ha la necessità, a denti stretti ci si sacrifica.

A suo favore, almeno dice, è in contatto con tutti i vari servizi segreti del mondo, soprattutto quelli non ufficiali, per cui se c’è qualcuno che può darmi la risposta che cerco, è certamente lui, almeno spero.

«Pilastro, Freddy ‘Pilastro’ Blondevitz, polacco di merda, quanto tempo è passato! Ma al-lora sei ancora vivo, anche se mi avevano detto che eri dipartito! Non fa nulla, tanto è solo questione di poco tempo».

Amo i vecchi, sinceri e cordiali amici.

«Troppo poco, e, alla faccia tua, godo di ottima salute».

«Parli proprio come il coglione che sei sempre stato! Che ti serve per diventare normale, almeno in apparenza: maria, hascisc, coca, crack, extasy, anfetamine o più semplicemente una bomba atomica per fare la guerra all’intero mondo che ti considera un insignificante reietto del genere umano?».

«Un’informazione, scopri tutto quello che c’è da sapere su una certa Eleonora Falco, ros-sa, alta, fisico statuario, sguardo mozzafiato e non solo».

«La figlia del vecchio RitmoSincopato Falco? Colui che ha inventato il ‘sette quarti e mezzo’? Il più grande figlio di puttana batterista jazz di questa fottuta città?».

Franz fischia alquanto sconvolto.

«E che ne so, vedi di dirmelo tu».

Non voglio inquinare le indagini con informazioni extra.

«Certo che come al solito parli da stronzo, eh, Pilastro! Comunque, scoprirò quello che ti interessa, poiché come tu sai, ai miei amici non sfugge nulla e sono sempre aggiornati su-gli scheletri che quelli come te, insulsi esseri, avete negli armadi, e a proposito, per il com-penso come ci regoliamo?».

«Quale compenso? Non ti ricordi più quel problemuccio che ti ho risolto nel quartiere cinese, altrimenti finivi aperto in due a galleggiare in uno dei tanti canali sotterranei che attraversano questa città che sopporta, appena, lo squallido individuo che sei?».

«Ok, ok, Pilastro, farò questo lavoro per te, però dopo siamo pari, chiaro? Ripassa qui tra qualche giorno. E comunque sai che parli proprio da stronzo?».

L’ho steso con un potente uno-due al flaccido stomaco.

Amo i vecchi e sinceri amici.

– IV –

È un sogno?

«Mi chiamo Eleonora, Eleonora Falco…».

Le parole sussurrate nel clamore del locale mi risuonano ancora nelle orecchie.

Mai nome fu più appropriato: c’è tutto l’amore del mondo in quel nome.

Tutto quello concesso e ricevuto da generazioni di appassionati amanti.

Tutto il profumo di notti insonni passate nell’inferno delle lenzuola o immersi nella profumata fragranza di un prato primaverile, così come la sensualità sprigionata dal suo flessuoso corpo è quasi tangibile, soffocante…

Insomma, un nome che reclama il suo diritto di nascita.

Impiego almeno dieci minuti per riprendermi, ma alla fine il raziocinio vince.

Non mi fido delle donne, se non l’avete capito, ma torniamo a noi.

«Cognome importante».

«Sono la figlia del vecchio RitmoSincopato Falco, se è questo che vuoi sapere».

Beh, ammetto che questo non è proprio in cima alla mia lista delle curiosità o, almeno, non prima del suo numero di scarpe.

Strappandomi dai miei pensieri, continua a parlarmi.

«Sono seguita, FPB. Ho bisogno d’aiuto da chi mi posso fidare in ricordo delle stupende ore passate a suonare col mio vecchio».

La interrompo.

«Non è un mio problema, per cui rivolgiti agli sbirri».

Ma lei è disperata, leggo nei suoi occhi la crisi imminente.

Mi si avvicina ancora di più, il suo profumo mi riempie le narici e il suo calore si diffonde nel mio animo: sento le difese cedere, le barriere cadere una a una.

La disfatta di Fort Alamo da parte delle truppe del Generale Santana.

Mi arrendo incondizionatamente.

La linea Maginot del mio buon senso è inesorabilmente raggirata, come la storia insegna, in meno di cinque minuti-

Ragazzi, non mi guardate così, sono sempre un uomo.

«Inizia a raccontarmi perché ti sei rivolta proprio a me».

Proseguo provando a darmi un contegno, anche se ormai quella poltiglia che continua futilmente a volersi definire cervello, mi esce dalle orecchie.

Sarà amore?

«Sono venuta da te perché il mio vecchio Falco adorava tutti voi, tu, il grande piccolo Joe e Peppi, o meglio, adorava Peppi, mentre tu e Ronny eravate solo un incidente di percorso».

Peppi, Peppi Le Cork, un nome che si fa avanti da un passato creduto ormai lontano, ma, purtroppo, come ogni incubo che si rispetti, puntualmente ogni notte si affacciava in quel guazzabuglio che è la mia mente.

Beh, è giusto che spenda qualche parola per lei: vi prometto che prima o poi lo farò, forse.

Eleonora rivendica la mia attenzione strappandomi ancora una volta dall’onda dei miei pensieri, e la cosa sta cominciando a diventare irritante.

«Non tutti sanno che mio padre, quando si ritirò dalle scene musicali, decise di imparare a suonare lo xilofono e poco prima di morire compose un’opera, ‘L’ultima’. Si è sempre ritenuto, lo credevo anch’io, che tale opera fosse rimasta incompiuta o quanto meno ine-dita, almeno fino a ora, ma recentemente, e non so come, un ex impresario di papà, tale David Pink Montagna, ha saputo dell’esistenza e la vuole per sé, in quanto dichiara di averne pienamente diritto. Aiutami, FPB, non so a chi altri rivolgermi, ho solo te, poiché di Ronny non so più nulla e di Peppi ho perso completamente ogni notizia dopo il ricovero nella clinica psichiatrica…».

«D’accordo, baby, mi hai convinto».

Concludo così, con gli ultimi scampoli di forza e dignità che mi rimangono: stare vicino a una donna del genere può essere, anzi, è sicuramente spossante.

La musica del locale si è fatta pesante come l’aria impregnata dal fumo di troppe sigarette e dalle intense volute dolciastre di scadenti sigari, pseudo cubani, confezionati illegalmente nelle nostre valli.

La band sta suonando un ritmo lento e sensuale che non evoca certo casti pensieri.

La lucidità, se ho mai creduto di averne una, si attenua di momento in momento.

Posso tranquillamente lasciare che l’istinto prenda il sopravvento sul mio corpo: inconsciamente, o almeno credo, disattivo la consapevolezza e allora, cari amici…

Buio totale.

CONTINUA

“… È SOLO MUSICA, ma senza amore e amicizia è nulla …” è un romanzo di Pierluigi Nanni

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